LETTERE


Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale.

Mi dici che la lettera che io ti ho scritta, dietro tua richiesta, sulla morte di mio zio, ti ha fatto nascere il desiderio di conoscere, dal momento in cui fui lasciato a Miseno (ed era precisamente questo che stavo per raccontarti, quando ho troncato la mia relazione), ...

Commissione a Leonardo da Vinci e ai fratelli Evangelista e Gian Ambrogio de' Predis per la Vergine delle Rocce. Atto rogato dal notaio Antonio de Capitani. Allegato all'atto notarile  "Lista deli hornamenti se ano a fare al'ancona dela Conceptione dela gloriossa Vergene ...

 Lettera di Gualtiero Bescapè a Ludovico il Moro sui lavori di Leonardo da Vinci alla sala grande delle Asse al Castello Sforzesco di Milano.

 "Ala saletta negra non si perde tempo. Lunedì si desarmarà la Camera grande dale asse, coè dala tore. Magistro Leonardo promete ...

«Illustrissimo professore Carlo Lorenzini, Scrivo con rispetto e gratitudine a Voi che decideste di farmi cosa grata riportando le mie memorie al popolo di  una penisola che mai amai come avrei potuto, che mai difesi come avrebbe meritato.  Una penisola che non fu ...

Anita, my querida, compañera de my vida, questa mia non verrà mai spedita perché ormai vivrai in un luogo che non conosco.

 E’ una sera bellissima, il cielo è sgombro da nuvole e le stelle compaiono una dopo l’altra man mano che si fa buio. Mi sono ...

Il ritrovamento, risalente all’agosto 2013, nel Fondo “Gianni Diecidue”, che si conserva presso l’Archivio Storico Comunale “Virgilio Titone” di Castelvetrano [1], di tre lettere di Giuseppe Garibaldi, insieme a una quarta, di Stefano Canzio, a Giovanni Pantaleo,...

Caro Pantaleo  Le vostre idee sono generosissime; ed io come voi spero in questo popolo che dorme sdraiato nel fango. Proviamo però a rovesciare il Napoleonide, che dagli spruzzi della sua caduta, può scintillare anche il fuoco della nostra ...

In caso non attacchiate Laveno questa notte ritiratevi a Gavirate, perché siamo minacciati noi stessi in Varese. Borelli mi ha informato che fin alla una pomeridiana Urban sta accantonando uomini in Camerlate per attaccare Varese. In ogni modo ...

Caro Nino Sono del vostro parere; penso dovrei attaccare Laveno questa notte stessa 24-25. Vi mando i carabinieri. Avete nelle vicinanze di Laveno tutta quella gente che ha lavorato alle fortificazioni e che vi può dare ogni ragguaglio. "Avete forse ...

Carissimo Viganotti Il latore della presente è il Comandante Simonetta delle nostre Guide. Vi prego di aiutare a trovargli delle barche da tenere nascoste presso le rogge, in oltre aiutate Simonetta a mettere in movimento tutti gli animi sulla riva destra del Ticino ...

Mio caro Pantaleo  Occuparsi di coloro che respingono le insegne dell’Idra papale – è dovere di noi tutti – giacché io credo: la maggior parte degli infelici preti che la speculazione o l’ignoranza consacrarono alla menzogna – trovando una via onesta per ...

Mio Caro Pantaleo Ho letto la vostra Lettera, quella di Finocchiaro, le circolari ed il vostro *** Mata, in cui ho trovata scolpita l’anima vostra aspirante alla giustizia ed al vero. Identiche sono le nostre idee sul Supr[...] Consiglio di Palermo; ed al nostro Campanella doveva succedere ciò che a me successe. La Costituente proposta ...

 

Collo spettacolo imponente di generoso patriottismo offerto dalla città di Prato all’Italia, che vengano i mercatanti di consigliare all’Italiani di tornare sotto il dominio vergognoso degli immorali loro padroni? Saranno la mente di pochi faziosi che repudiano le ...

TRAPANI – Tre lettere scritte da Giuseppe Garibaldi sono spuntate a sorpresa tra i documenti che gli eredi dello storico e drammaturgo Gianni Diecidue di Castelvetrano, scomparso nel 2009, hanno donato al Comune. Le lettere autografe dall’Eroe dei due Mondi ...

Caro Amico,

Ho chiesto un altro milione di fucili agli Italiani. Sicuro del vostro consenso, delego voi a raccogliere i fondi necessarj. I danari raccolti li verserete nelle mani del Sig. Adriano Lemmi nostro cassiere in Torino.

 A conferma delle anzidette testimonianze si trascrive la lettera che Garibaldi scrisse al BASILE dopo che erano trascorsi alcuni mesi dal fatto d’armi d’Aspromonte; fortunatamente tale lettera si conserva in stampa nel “Giornale di Sicilia” di Palermo del 29 ...

Voi aveste di me cura affettuosa di figlio, oltre ad essere mio speciale curante, dotato di mano leggera e benefica in qualunque vostra pratica operazione.

Voi sin dal principio e durante la cura, sosteneste ...

Madonna amabilissima,    Se v'è una voce, che possa pesare sulle mie risoluzioni, dessa è veramente la vostra. E se gli oltraggi commessi dal più immorale dei Governi avessero soltanto colpito il mio povero  individuo, io m'inchinerei oggi, umiliato, ai vostri...


Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale.

Quantunque infatti, egli sia deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe, come se fosse destinato a vivere sempre -insieme a quelle genti ed a quelle città- proprio in virtù di quell'indimenticabile sciagura, quantunque abbia egli stesso composto una lunga serie di opere che rimarranno, tuttavia alla perennità della sua fama recherà un valido contributo l'immortalità dei tuoi scritti. Personalmente io stimo fortunati coloro ai quali per dono degli dei fu concesso o di compiere imprese degne di essere scritte o di scrivere cose degne di essere lette, fortunatissimi poi coloro ai quali furono concesse entrambe le cose.

Nel novero di questi ultimi sarà mio zio, in grazia dei suoi libri e in grazia dei tuoi. Tanto più volentieri perciò accolgo l'incombenza che tu mi proponi, anzi te lo chiedo insistentemente.

Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l'una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell'ordinario sia per la grandezza sia per l'aspetto.

Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare il prodigio.

Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma.

Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l'idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami, credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l'esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi; talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sè terra o cenere.

Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino.

Ordina che gli si prepari una liburnica e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto.

Mentre usciva di casa, gli venne consegnata una lettera da parte di Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l'unica via di scampo era rappresentata dalle navi), lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso. Egli allora cambia progetto e ciò, che aveva incominciato per interesse scientifico, affronta per l'impulso della sua eroica coscienza.

Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poichè quel litorale in grazia della sua bellezza, era fittamente abitato.

Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone proprio nel cuore del pericolo, cosi immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo.

Oramai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso e una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale. Dopo una breve esitazione, se dovesse ripiegare all'indietro, al pilota che gli suggeriva quell'alternativa, tosto replicò:

- "La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano". Questi si trovava a Stabia; dalla parte opposta del golfo (giacchè il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio); colà, quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato sulle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, cosi che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com'era, lo conforta, gli fa animo, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno: terminata la pulizia prende posto a tavola e consuma la sua cena con un fare gioviale o, cosa che presuppone una grandezza non inferiore, recitando la parte dell'uomo gioviale. Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell'affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi si abbandonò al riposo e riposò di un sonno certamente genuino. Infatti il suo respiro, a causa della sua corpulenza, era piuttosto profondo e rumoroso, veniva percepito da coloro che andavano avanti e indietro sulla soglia. Senonchè il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di ceneri miste a pomice, aveva ormai innalzato tanto il livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne. Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l'azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l'impressione di sbandare ora da una parte ora dall'altra e poi di ritornare in sesto. D'altronde all'aperto cielo c'era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra questi due pericoli indusse a scegliere quest'ultimo. In mio zio una ragione predominò sull'altra, nei suoi compagni una paura s'impose sull'altra. Si pongono sul capo dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall'alto. Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso a terra, chiese a due riprese dell'acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano. Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò, da quanto io posso arguire, l'atmosfera troppo pregna di cenere gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata. Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui si presentava il corpo faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto. Frattanto a Miseno io e mia madre... ma questo non interessa la storia e tu non hai espresso il desiderio di essere informato di altro che della sua morte. Dunque terminerò.

Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte circostanze alle quali sono stato presente e che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione. Tu ne stralcerai gli elementi essenziali: sono infatti cose ben diverse scrivere una lettera od una composizione storica, rivolgersi ad un amico o a tutti.

Stammi bene.

 

 

Mi dici che la lettera che io ti ho scritta, dietro tua richiesta, sulla morte di mio zio, ti ha fatto nascere il desiderio di conoscere, dal momento in cui fui lasciato a Miseno (ed era precisamente questo che stavo per raccontarti, quando ho troncato la mia relazione), non solo quali timori ma anche quali frangenti io abbia dovuto affrontare. "Anche se il semplice ricordo mi causa in cuore un brivido di sgomento... incomincerò".

Dopo la partenza di mio zio, spesi tutto il tempo che mi rimaneva nello studio, dato che era stato proprio questo il motivo per cui mi ero fermato; poi il bagno, la cena ed un sonno agitato e breve. Si erano già avuti per molti giorni dei leggeri terremoti, ma non avevano prodotto molto spavento, essendo un fenomeno ordinario in Campania, quella notte invece le scosse assunsero una tale veemenza che tutto sembrava non muoversi, ma capovolgersi. Mia madre si precipita nella mia stanza: io stavo alzandomi con il proposito di svegliarla alla mia volta nell'eventualità che dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile della nostra abitazione: esso con la sua modesta estensione separava il caseggiato dal mare. A questo punto non saprei dire se si trattasse di forza d'animo o di incoscienza (non avevo ancora compiuto diciotto anni!): domando un libro di Tito Livio e, come se non mi premesse altro che di occupare il tempo, mi dò a leggerlo ed a continuare gli estratti che avevo incominciati. Ed ecco sopraggiungere un amico di mio zio, che era da poco arrivato dalla Spagna per incontrarsi con lui; quando vede che io e mia madre ce ne stiamo seduti e che io attendo niente meno che a leggere, fa un'energica paternale a mia madre per la mia inettitudine e a me per la mia noncuranza. Con tutto ciò io continuo a concentrarmi nel mio libro come prima. Il sole era già sorto da un'ora e la luce era ancora incerta e come smorta. Siccome le costruzioni che ci stavano all'intorno erano ormai malconce, anche se eravamo in un luogo scoperto -che era però angusto- c'era da temere che, qualora crollassero, ci portassero delle conseguenze gravi e ineluttabili. Soltanto allora ci parve opportuno di uscire dalla cittadina; ci viene dietro una folla sbalordita, la quale -seguendo quella contraffazione dell'avvedutezza che è tipica dello spavento- preferisce l'opinione altrui alla propria e con la sua enorme ressa ci incalza e ci spinge mentre ci allontaniamo. Una volta fuori dell'abitato ci fermiamo. Là diventiamo spettatori di molti fatti sbalorditivi, ci colpiscono molti particolari che incutono terrore. Così i carri che avevamo fatto venire innanzi, sebbene la superficie fosse assolutamente livellata, sbandavano nelle più diverse direzioni e non rimanevano fermi al loro posto neppure se venivano bloccati con pietre. Inoltre vedevamo il mare che si riassorbiva in se stesso e che sembrava quasi fatto arretrare dalle vibrazioni telluriche. Senza dubbio il litorale si era avanzato e teneva prigionieri nelle sue sabbie asciutte una quantità di animali marini. Dall'altra parte una nube nera e terrificante, lacerata da lampeggianti soffi di fuoco che si esplicavano in linee sinuose e spezzate, si squarciava emettendo delle fiamme dalla forma allungata: avevano l'aspetto dei fulmini ma ne erano più grandi. A questo punto si rifà avanti l'amico spagnolo e ci incalza con un tono più inquieto e più stringente:

- "Se tuo fratello, se tuo zio vive, vi vuole incolumi, se è morto, ha voluto che voi gli sopravviveste. Perciò perchè indugiate a mettervi in salvo?".

Gli rispondiamo che noi non avremmo mai accettato di provvedere alla nostra salvezza finchè non avevamo nessuna notizia della sua. Egli non perde tempo, ma si getta in avanti correndo a più non posso si porta fuori dal pericolo. Poco dopo quella nube calò sulla terra e ricoperse il mare: aveva già avvolto e nascosto Capri ed aveva già portato via ai nostri sguardi il promontorio di Miseno. Allora mia madre a scongiurarmi, ad invitarmi, ad ordinarmi di fuggire in qualsiasi maniera; diceva che io, ancora giovane, ci potevo riuscire, che essa invece, pesante per l'età e per la corporatura avrebbe fatto una bella morte se non fosse stata causa della mia. Io però risposi che non mi sarei salvato senza di lei; poi presala per mano, la costringo ad accelerare il passo. Mi ubbidisce a malavoglia e si accusa di rallentare la mia marcia. Incomincia a cadere cenere, ma è ancora rara. Mi volgo indietro: una fitta oscurità ci incombeva alle spalle e, riversandosi sulla terra, ci veniva dietro come un torrente.

- "Deviamo, le dico, finchè ci vediamo ancora, per evitare di essere fatti cadere sulla strada dalla calca che ci accompagna e calpestati nel buio".

Avevamo fatto appena a tempo a sederci quando si fece notte, non però come quando non c'è luna o il cielo è ricoperto da nubi, ma come a luce spenta in ambienti chiusi.

Avresti potuto sentire i cupi pianti disperati delle donne, le invocazioni dei bambini, le urla degli uomini: alcuni con le grida cercavano di richiamare ed alle grida cercavano di rintracciare i genitori altri i figli, altri i coniugi rispettivi; gli uni lamentavano le loro sventure, gli altri quelle dei loro cari taluni per paura della morte, si auguravano la morte, molti innalzavano le mani agli dei, nella maggioranza si formava però la convinzione che ormai gli dei non esistessero più e che quella notte sarebbe stata eterna e l'ultima del mondo. Ci furono di quelli che resero più gravosi i pericoli effettivi con notizie spaventose che erano inventate e false.

 Arrivavano di quelli i quali riferivano che a Miseno la tale costruzione era crollata, che la tal altra era divorata dall'incendio: non era vero ma la gente ci credeva. Ci fu una tenue schiarita, ma ci sembrava che non fosse la luce del giorno ma un preannuncio dell'avvicinarsi del fuoco. Il fuoco c'era davvero, ma si fermò piuttosto lontano; poi di nuovo il buio e di nuovo cenere densa e pesante. Tratto tratto ci alzavamo in piedi e ce la scuotevamo di dosso; altrimenti ne saremmo stati coperti e saremmo anche rimasti schiacciati sotto il suo peso. Potrei vantarmi che, circondato da così gravi pericoli, non mi sono lasciato sfuggire nè un gemito nè una parola meno che coraggiosa, se non fossi stato convinto che io soccombevo con l'universo e l'universo con me: conforto disperato, è vero, ma pure grande nella mia qualità di essere soggetto alla morte. I1

Finalmente quella oscurità si attenuò e parve dissiparsi in fumo o in vapori, ben presto sottentrò il giorno genuino e risplendette anche il sole, ma livido, come suole apparire durante le eclissi. Agli occhi ancora smarriti tutte le cose si presentavano con forme nuove, coperte di una spessa coltre di cenere come se fosse stata neve. Ritornati a Miseno, e preso quel po' di ristoro che ci fu possibile, passammo tra alternative di speranza e di timore una notte ansiosa ed incerta. Era però il timore a prevalere; infatti le scosse telluriche continuavano ed un buon numero di individui, alienati, dileggiavano con spaventevoli profezie le disgrazie loro ed altrui. Noi però, quantunque avessimo provato personalmente il pericolo e ce ne aspettassimo ancora, non venimmo nemmeno allora alla determinazione di andarcene prima di ricevere notizie dello zio.

 Ti mando questa relazione perchè tu la legga, non perchè la scriva, dato che non s'addice affatto al genere storico; attribuisci poi la colpa a te -evidentemente in quanto me l'hai richiesta- se non ti parrà addirsi neppure a quello epistolare.

Stammi bene.

1483 aprile 25, Milano

 

Commissione a Leonardo da Vinci e ai fratelli Evangelista e Gian Ambrogio de' Predis per la Vergine delle Rocce. Atto rogato dal notaio Antonio de Capitani.

 

Allegato all'atto notarile

"Lista deli hornamenti se ano a fare al'ancona dela Conceptione dela gloriossa Vergene Maria posta nela chessa de Sancto Francesco in Milano". Insieme a quelle dei fratelli de' Predis, compare la firma autografa di Leonardo: Io Lionardo da Vinci...

Cimeli

 

"Ego Bartolomeus Scalionus prior...

Iohannes Antonius de Sancto Angello...

Io Lionardo da Vinci in testimonio ut supra subscripsi

Io Evangelista Predi subscripsi

Iohannes Ambrosius de Predis subscripsi"

 

Il contratto per il dipinto è stipulato tra la Scuola della Concezione fondata nel 1478, posta nella chiesa di San Francesco Grande a Milano, in porta Vercellina, dell'Ordine dei frati Minori, e gli 'artisti', Leonardo da Vinci e i fratelli de Predis. Nel contratto si stabilisce che l'opera debba essere ultimata l'8 dicembre dell'anno successivo (1484) per festa della Immacolata, per un compenso complesssivo di 800 lire da pagarsi secondo modalità concordate; i fratelli de Predis e Leonardo, 'magister Leonardus de Vintiis Florentinus', devono provvedere alle materie prime e all'oro a proprie spese.

 

 1498 aprile 21, Milano

 

 Lettera di Gualtiero Bescapè a Ludovico il Moro sui lavori di Leonardo da Vinci alla sala grande delle Asse al Castello Sforzesco di Milano.

 "Ala saletta negra non si perde tempo. Lunedì si desarmarà la Camera grande dale asse, coè dala tore. Magistro Leonardo promete finirla per tuto septembre, et che per questo si potrà etiam goldere, perchè li ponti ch'el farà lasarano vacuo de soto per tutto.

 

 «Illustrissimo professore Carlo Lorenzini,

Scrivo con rispetto e gratitudine a Voi che decideste di farmi cosa grata riportando le mie memorie al popolo di  una penisola che mai amai come avrei potuto, che mai difesi come avrebbe meritato.

 Una penisola che non fu mai e mai sarà la mia patria.

Una penisola meravigliosa che io non solo non unificai, se non unicamente al nome, ma che addirittura divisi, e,  per mia colpa, divisa sarà per sempre.

[...] codesto giorno, trentuno maggio ottantadue del secolo milleottocento, sono a ricordare la mia vita trascorsa,  in attesa che venga definitivamente compiuto il mio destino [...] forse non temo neppure: diciamo che attendo che  presto sia fatta giustizia e chi mai può sapere se dopo la morte vi sarà giustizia?!

Voi infatti penserete che io sia felicemente italiano: se così fosse le sorprese non vi mancheranno.

Se vi aspettavate un patriota, troverete un avventuriero.

Se vi aspettavate un probo, troverete un dissoluto.

 La spedizione dei mille fu realmente la più vile porcata che il suolo della penisola possa aver mai vissuto e, a questo punto, spero che mai sia costratta a rivedere.

La mia vita era rivolta alla ricerca di fama e ricchezza: mi venne in mente di unificare l'Italia in quanto sarei potuto diventare potente e ricco.

Cercai appoggi, soldi e falsi ideali su cui far leva e trovai qualcuno che, dopo avermi usato, mi mise da parte.

Diciamo subito e senza giri di parole: il patriottismo in Italia non è mai esistito.

Mi ricordano tutti come il patriota Giuseppe Garibaldi, ma queste sono voci, magari leggende, ma certamente menzogne.

Mi chiamo Joseph Marie Garibaldi e, contrariamente, a quanto pensano molti, sono e mi sento francese.

[...] l'Italia del Nord depredò ltalia del Sud con atti di ferocia tale che mai potrà essere cancellata ed ancora accade mentre sto scrivendo...».


 

 

G. Garibaldi

Lettera ad Anita  Caprera, 6 aprile 1882

Anita, my querida,

compañera de my vida, questa mia non verrà mai spedita perché ormai vivrai in un luogo che non conosco.

 E’ una sera bellissima, il cielo è sgombro da nuvole e le stelle compaiono una dopo l’altra man mano che si fa buio. Mi sono seduto al mio scrittoio, appena rientrato da una breve passeggiata. Ho visto il mare e le vele bianche di una nave che forse è diretta a Savona.

 Quando la sera arriva, il mio animo si turba perché i miei ricordi si ravvivano e si riaccende il mio amore per te che si fonde con la sofferenza che deriva dalla tua mancanza e questo è il momento giusto per scriverti.

 Il mio corpo è prigioniero quì a Caprera, perché di prigionia si tratta anche se la chiamano esilio.

Il mio spirito è invece libero, ma non so come raggiungerti, durante la mia vita colma di guerre, battaglie e sangue non ho avuto tempo per dedicarmi a comprendere le cose del mondo dello spirito.

 Abbiamo vissuto una vita gloriosa, poco di te si è parlato, ma senza il tuo amore non avrei potuto compiere quelle imprese per cui tanti mi hanno acclamato.

 La storia ti ricorderà come la compagna di Garibaldi. Tu sei sempre stata fiera di esserlo, non hai mai cercato onori, non hai mai avuto bisogno nemmeno del riflesso della gloria che hanno dato alla mia persona.

Tu saresti stata quella che sei con o senza Garibaldi.

Giuseppe Garibaldi è morto il giorno che ha detto:”Obbedisco!” In un attimo ho sentito tutto il mio ardore affievolirsi fino a scomparire come un fuoco che si spegne gettandoci sopra dell’acqua. In quel momento tutto il mio essere si è contratto, per aver deciso di non essere più Giuseppe Garibaldi.

Se tu fossi stata al mio fianco nessuno avrebbe avuto il coraggio di chiedermi di fermarmi, re o non re, perchè non lo avrei permesso.

La promessa di amore eterno che abbiamo suggellato mentre guardavamo le onde dell’oceano forse ci porterà ad incontrarci nel corso delle vite, ma in tal caso quello che incontrerai sarà un uomo vinto, seppur sconfitto solo da se stesso, che non ricorderà chi era stato, perché non so se riuscirò a riprendere la mia forza a cui ho rinunciato.

 Forse ci incontreremo e ci guarderemo negli occhi attratti l’uno dall’altra, ma le nostre vite saranno diverse perché i tempi saranno cambiati.

L’Italia sarà fatta, un giorno ci saranno anche gli Italiani, forse i re non faranno più guerre.

Forse saremo due cittadini qualunque, ma se è vero che, come penso, il nostro amore continuerà per l’eternità, il corso del tempo ci porterà inevitabilmente a riunirci e a lasciarci per poi ritrovarci, e ho speranza che verrà il momento che l’eternità ci unirà per sempre.

Non sarà facile per Giuseppe Garibaldi essere nessuno dopo tanta gloria e tanti onori e poi niente.

Non mi pesano tanto gli onori che non verranno rinnovati, quanto il fatto che forse non avrò modo di dare quanto ho saputo dare in questa vita.

Se ci incontreremo, ti chiedo comprensione per il mio animo ferito e le ombre che passeranno sul mio volto senza sapere perché. Ma so già che sai amare un uomo anche nei momenti difficili.

A presto my querida.

 Garibaldi

 

 

Il Fondo “Gianni Diecidue” e il ritrovamento di tre lettere di Giuseppe Garibaldi a Giovanni Pantaleo

Il ritrovamento, risalente all’agosto 2013, nel Fondo “Gianni Diecidue”, che si conserva presso l’Archivio Storico Comunale “Virgilio Titone” di Castelvetrano [1], di tre lettere di Giuseppe Garibaldi, insieme a una quarta, di Stefano Canzio, a Giovanni Pantaleo, è direttamente collegato ad alcune ricerche che Gianni Diecidue (1922-2009) – drammaturgo, poeta e storico castelvetranese – pubblicò negli anni Cinquanta e Sessanta [2] e ad una monografia che pensò di redigere nell’ultima parte della sua vita, ovvero La Cultura a Castelvetrano tra Ottocento e Novecento, opera rimasta incompleta a causa prima della malattia e poi della morte dell’Autore, che la lasciò in parte in forma di dattiloscritto e in parte di manoscritto. Non è questa la sede per parlare delle vicissitudini di tale materiale; basterà dire che è in corso ora la trascrizione, per quanto possibile, e la revisione filologica dell’opera, che dovrebbe essere pubblicata il prossimo anno. Una delle parti più cospicue dello scritto è dedicata da Diecidue a Giovanni Pantaleo “scrittore”, alle sue opere e alle sue lettere. Spazio trovano, inoltre, nello scritto le lettere, due delle quali (la seconda e la terza) finora inedite [3], inviate a Pantaleo da parte di Garibaldi.

Giovanni Pantaleo è, tra i protagonisti della spedizione garibaldina, una figura certo da riscoprire. Egli non era più un frate cappuccino da qualche anno, quando riceve le lettere che qui si presentano, ed era chiaramente inserito come Garibaldi nella massoneria (come si evince anche dalla nostra terza lettera, la più interessante); sia il monumento a Roma che l’intestazione del Liceo di Castelvetrano sono relativi alla sua vita di combattente e alla sua nuova posizione sociale, anche se erroneamente alcuni continuano a definirlo fra’ Giovanni Pantaleo.

La prima lettera, datata 19 luglio 1867, fu inviata all’ex frate castelvetranese da Garibaldi qualche mese prima del drammatico scontro di Mentana, dove Pantaleo combatté come assistente di campo di Menotti Garibaldi. In queste poche righe emerge emblematicamente l’icastica avversità di Garibaldi alla Chiesa di Roma («occuparsi di coloro che respingono le insegne dell’Idra papale – è dovere di noi tutti»): una vispolemica, quella del Generale nei confronti del Papato, fortemente condivisa da Pantaleo, il quale, tra l’altro, non ha mai esitato a mostrarsi, almeno dall’impresa dei Mille in poi, apertamente ostile alla Chiesa «dei Papi», gerarchica, autoritaria e antiprogressista – ci rammenta anche Gianni Diecidue nei suoi studi risorgimentistici – a fronte del vagheggiamento di una «Chiesa di Cristo», umile vera ed autentica. Si ricordi, a tale proposito, la convinta partecipazione di Pantaleo all’Anticoncilio promosso a Napoli da Giuseppe Ricciardi in contrapposizione al Concilio Vaticano I, indetto il 9 dicembre del 1869 da Pio IX.

Sia la seconda (4 giugno 1869) che la terza (31 maggio 1870) furono scritte, invece, da Caprera. Sono i mesi che precedono la dichiarazione di guerra, da parte di Napoleone III, imperatore dei francesi, abilmente provocato da Bismarck, alla Prussia. Il 2 settembre 1870, a Sedan, Napoleone sarà sconfitto in una battaglia campale e verrà fatto prigioniero dall’esercito prussiano. Due giorni dopo, a Parigi viene proclamata la terza repubblica. Garibaldi segue con trepidazione le dinamiche internazionali che lo spingeranno, immediatamente dopo che sarà ufficialmente costituita la repubblica francese, a manifestare la sua disponibilità a partecipare alla campagna militare in sostegno delle istanze politiche, dei valori e degli ideali propalati dal nuovo governo francese. Si ricordi, solo per rendere l’idea della ferma decisione presa dal non più giovane Garibaldi, il celebre telegramma inviato ai francesi: «Quanto resta di me è al vostro servizio. Disponete». Il resto è storia. Garibaldi otterrà il comando di tutti i corpi franchi dei Vosgi da Strasburgo a Parigi e di una brigata di guardie mobili e sconfiggerà a Digione le truppe prussiane (21-23 gennaio 1871). Anche in quest’impresa, con il grado di capitano aiutante di campo, Pantaleo sarà al suo fianco, e combatterà con vigore e prontezza di spirito. Per commentare, in sintesi, quest’ultima, leggendaria, campagna militare garibaldina, si potrebbero ricordare le parole di Bakunin, scritte nel 1872: «Nessuno ammira più sinceramente, più profondamente di me l’eroe popolare Garibaldi. La sua campagna di Francia, tutta la sua condotta in Francia è stata veramente sublime di grandezza, di rassegnazione, di semplicità, di perseveranza, d’eroismo. Mai mi era sembrato così grande».

A Garibaldi e a Pantaleo toccò lottare per tutta la vita, per essere alla fine sconfitti dalla stessa. Lo stesso regime che avevano contribuito a far vincere non era per loro, come non lo era la stessa massoneria, che avevano ritenuto cosa più ben nobile. Non sappiamo, inoltre, se Pantaleo si rese conto di avere, alfine, consegnato al meridione d’Italia un governo peggiore di quello borbonico.

Figure nobili e in buona fede, Pantaleo e Garibaldi, che, come spesso accade, furono usate da altri per scopi non nobili.

 

 

 Caprera 4 Giugno 1869

 Caro Pantaleo

 Le vostre idee sono generosissime; ed io come voi spero in questo popolo che dorme sdraiato nel fango. Proviamo però a rovesciare il Napoleonide, che dagli spruzzi della sua caduta, può scintillare anche il fuoco della nostra redenzione.  Assicurate il signor Donatelli ch’io accusai ricevuta dei 4 sacchi [di] zolfo da lui inviatimi e che lo ringrazio per tanta gentilezza.   Nell’avvenire scriverò direttamente a voi; e col nostro Lega avrete il diritto di venir assaggiare il vino, da voi fatto bevibile.

  Un caro saluto alla famiglia ed a Lega dal sempre Vostro

  G. Garibaldi

 

Vinci 19 Luglio 1867

 Mio caro Pantaleo

 Occuparsi di coloro che respingono le insegne dell’Idra papale – è dovere di noi tutti – giacché io credo: la maggior parte degli infelici preti che la speculazione o l’ignoranza consacrarono alla menzogna – trovando una via onesta per uscire dalla falsa loro posizione – lo faranno volentieri.  Propagate dunque a tutta possa la sottoscrizione per i preti spretati.

 Un caro saluto alla famiglia dal sempre Vro

  G. Garibaldi

 

 

 Mio Caro Pantaleo

 

Ho letto la vostra Lettera, quella di Finocchiaro, le circolari ed il vostro *** Mata, in cui ho trovata scolpita l’anima vostra aspirante alla giustizia ed al vero.

Identiche sono le nostre idee sul Supr[...] Consiglio di Palermo; ed al nostro Campanella doveva succedere ciò che a me successe.

La Costituente proposta da questi *** nostro [...] potrà esser utile ove si voglia appartare l’esclusivismo e lavare la vecchia M[...] da certi vecchi sudiciumi che la deturpano, come per esempio:

Il potentissimo Gov[...]***

In tal caso la M[...] potrebbe servire di punto d’appoggio al gran fascio della famiglia umana; e comincerebbe per fare un bene immenso a questi garruli e ringhiosi nostri concittadini, aglomerando tutta questa babilonia d’associazioni, per cui essi trovansi perennemente divisi.

Lascio a voi lo enumerare tutte le sorgenti di discordia che zampillano dalle Società sude.

 Salutatemi il Generale Mata e la famiglia e son sempre Vostro

 G.Garibaldi

 

Lettera di Giuseppe Garibaldi ad Antonio Martini, 16.12.1859, Archivio di Stato di Prato, Comunale, Carte Cironi, cartella A fascicolo 6

 Fino [presso Como], 16 dicembre 1859

Collo spettacolo imponente di generoso patriottismo offerto dalla città di Prato all’Italia, che vengano i mercatanti di consigliare all’Italiani di tornare sotto il dominio vergognoso degli immorali loro padroni? Saranno la mente di pochi faziosi che repudiano le vecchie putride dinastie come asseriscono gli organi dello straniero despotismo e quelli ancora più corrotti della falange bugiarda e pervertitrice dei veri, o sono i popoli interi della penisola, stanchi di secolare servaggio e volenti con sublime unanimità di proposito [a] redimersi e compiere la legge a loro insegnata dal Cristo? Che guardino a Prato! L’esempio dato dall’illustre vostra città non sarà perduto certamente, e tutte le città italiane, concordi e tranquille, ma armate sin all’ultimo di loro ponno aspettare fidenti le deliberazioni dell’oracolo, che senza dubbio, sarà loro favorevole! Co’sensi della più sentita gratitudine io sono

 Con affetto suo

G. Garibaldi 

  

Le confessioni di Garibaldi al cappellano. Trovate 3 lettere autografe finora ignote (da corriere.it) Pubblicato da lucatleco in 21 settembre 2013

 

TRAPANI – Tre lettere scritte da Giuseppe Garibaldi sono spuntate a sorpresa tra i documenti che gli eredi dello storico e drammaturgo Gianni Diecidue di Castelvetrano, scomparso nel 2009, hanno donato al Comune. Le lettere autografe dall’Eroe dei due Mondi sono indirizzate a fra’ Giovanni Pantaleo, cappellano dei Mille e originario proprio della cittadina in provincia di Trapani

 DA VINCI E CAPRERA – Una delle missive è stata spedita da Vinci nel 1867, le altre due da Caprera tra il 1869 e il 1870. Ad individuare le lettere è stato il professore Vincenzo Maria Corseri, consulente per le attività culturali dell’amministrazione comunale

 LE TRE LETTERE – Nella prima e più incisiva lettera, Garibaldi sollecita fra’ Pantaleo a vegliare sull’Unità d’Italia e a evitare le ingerenze papali che avrebbero potuto insidiare i suoi uomini. Le altre lettere sono ancora sotto esame. «La carta e l’inchiostro – spiega Corseri – sono un po’ rovinati e quindi ci vorrà un po’ di tempo in più. Inoltre ho sottoposto la questione a degli esperti di storia garibaldina così da individuare eventualmente altre lettere scambiate tra Pantaleo e il generale». Tutte insieme saranno poi esposte all’archivio storico Virgilio Titone di Castelvetrano

 LA QUARTA LETTERA DAL GENERO DELL’EROE – Tra gli epistolari collezionati dallo storico è stata trovata anche una quarta lettera indirizzata di Stefano Canzio a fra Giovanni Pantaleo. Canzio era il genero di Garibaldi, per aver sposato la figlia di primo letto Teresita, oltre che figura di spicco della spedizione garibaldina.

 

 

Garibaldi delega Tanara a raccogliere i fondi necessari per "un altro milione di fucili"

Caprera Agosto 1863

 Caro Amico,

Ho chiesto un altro milione di fucili agli Italiani. Sicuro del vostro consenso, delego voi

a raccogliere i fondi necessarj. I danari raccolti li verserete nelle mani del Sig. Adriano Lemmi nostro cassiere in Torino.

  

Lettera di Garibaldi a Basile

A conferma delle anzidette testimonianze si trascrive la lettera che Garibaldi scrisse al BASILE dopo che erano trascorsi alcuni mesi dal fatto d’armi d’Aspromonte; fortunatamente tale lettera si conserva in stampa nel “Giornale di Sicilia” di Palermo del 29 agosto 1942 e nel foglio culturale della città di Agrigento “Il Caffè” del 2004. L’originale si trova presso la Biblioteca della Società di Storia Patria di Palermo. Ecco il testo della lettera:

 

Caprera, 22 gennaio 1863

  

Mio caro Basile

 Voi aveste di me cura affettuosa di figlio, oltre ad essere mio speciale curante, dotato di mano leggera e benefica in qualunque vostra pratica operazione.

Voi sin dal principio e durante la cura, sosteneste sempre fermamente, essere il proiettile dentro la ferita e precisamente in corrispondenza della incisione fatta in Aspromonte dal vostro amico Dott. Albanese.

Voi accertaste che la articolazione tibio-tarsica non era lesa; e fin dal 19 settembre ’62, al Varignano, proponeste la spugna preparata per dilatare il tramite della ferita, e per passare alla estrazione della palla.

Infine, dal momento in cui fui ferito, sino a questo di quasi completa guarigione, Voi mi avete assistito così caramente da trovarmi nelle impossibilità di esprimere tutta la mia gratitudine “Al Dr. Basile Giuseppe”.

 Vogliate gradire queste parole del cuore riconoscente Vostro per la vita.

G. Garibaldi

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 Il NOSTRO fu membro dell’ACCADEMIA FISIO-MEDICO-STATISTICA di Milano con la seguente motivazione: “Il Chiarissimo Sig. Dott. BASILE Chirurgo Curante la Ferita del Grande Garibaldi a Pisa è dichiarato Socio Corrispondente di questa Accademia Scientifica, stata autorizzata con Sovrana Risoluzione il giorno 18 Ottobre 1845″.

 

 

 Besozzo 24 Maggio 1859

Caro Bixio,

In caso non attacchiate Laveno questa notte ritiratevi a Gavirate, perché siamo minacciati noi stessi in Varese. Borelli mi ha informato che fin alla una pomeridiana Urban sta accantonando uomini in Camerlate per attaccare Varese. In ogni modo inculcate alle popolazioni esser necessario tener Laveno chiusa ermeticamente. Circa ai cavalli, dovrete voi stesso requisire e far riposare quelli delle nostre guide. Che si dia da mangiare ai cavalli e non galoppino inutilmente.

In caso udiste fuoco vivo a Varese, venite anche senza essere chiamato.

 V.ro G. Garibaldi

 

Gavirate 24 Maggio 59

 

Caro Nino

Sono del vostro parere; penso dovrei attaccare Laveno questa notte stessa 24-25. Vi mando i carabinieri. Avete nelle vicinanze di Laveno tutta quella gente che ha lavorato alle fortificazioni e che vi può dare ogni ragguaglio.

"Avete forse bisogno di [...] e scale? Approfittate della buona volontà degli abitanti per qualunque cosa, anche per attaccare il forte, sembrandomi essi pieni di entusiasmo. In cosa poi aveste bisogno che io vi sostenessi colla brigata; avvisatemi subito. Circa il vicerè, requisiteli dai Municipi".

 G. Garibaldi

 

Biagio Viganotti presso Casa Visconti Castelletto

Borgomanero Maggio 1859

 Carissimo Viganotti

Il latore della presente è il Comandante Simonetta delle nostre Guide. Vi prego di aiutare a trovargli delle barche da tenere nascoste presso le rogge, in oltre aiutate Simonetta a mettere in movimento tutti gli animi sulla riva destra del Ticino da Varallo Pombia fino all'altezza di Somma, ed eccitandoli ad aiutarlo per tutto quello che necessita.

 G. Garibaldi

 

 

Lettera di Garibaldi

Pubblicato il 25 ottobre 2008 da admin

 A Russi è conservata una lettera di Giuseppe Garibaldi, indirizzata ad Alfredo Baccarini. Un Garibaldi ormai ultrasettantenne scrive ad un amico, maturo ed importante uomo politico, in questi termini:

 

Caprera 15 ottobre 78

  

Caprera, 7 settembre 1868.

Madonna amabilissima,    Se v'è una voce, che possa pesare sulle mie risoluzioni, dessa è veramente la vostra. E se gli oltraggi commessi dal più immorale dei Governi avessero soltanto colpito il mio povero  individuo, io m'inchinerei oggi, umiliato, ai vostri piedi, impareggiabile Madre, e vi direi,  pentito: «riabilita­temi nell'antica stima». Ma... vedere il sacrifizio di tanti generosi, fra cui  preziosissima parte del vostro sangue, risultare a pro' di alcuni traditori e rima­nere  indifferenti, è troppa debolezza non solo, ma vergogna ! E mi vergogno certamente di avere  contato, per tanto tempo, nel novero di un'assem­blea di uomini destinata in apparenza a fare il  bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l'ingiu­stizia, il privilegio e la prostituzioe !

 Ciò che a Voi dico, avrei potuto, motivando la mia dimissione, pubblicarlo. Ma, come dire  all'Italia, ch'io mi vergogno appartenere ad un Parlamento, dove siedono uomini come  Benedetto Cairoli? Quindi mi sono semplicemente dimesso da un mandato divenuto ogni  giorno più umiliante.

 E credete voi, che per ciò io non sia più con essi ?

 Tale dubbio, tale diffidenza, da parte della donna che più onoro sulla terra, mi furono

 veramente dolorosi ! E benché affralito materialmente, sento nell'anima di voler seguire i  campioni della libertà italiana, anche dove possa giungere una portantina. Qui, o Signora, io  sento battere colla stessa vee­menza il mio cuore, come nel giorno, in cui sul monte del Pianto  dei Romani, i vostri eroici figli faceanmi baluardo del loro corpo prezioso contro il piombo  borbonico! E quando giunga l'ora, in cui gl'italiani vogliano lavare le loro macchie, se vivo,  spero di trovarvi un posto.  Troppo la stupida pazienza di chi li tollerava. E Voi, donna di alti sensi e d'intelligenza squisita  , volgete per un momento il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri martiri e dai  loro eroici compagni. Chiedete ai cari vostri superstiti delle benedizioni, con cui quelle infelici  salutavano ed accoglievano i loro liberatori! Ebbene, esse maledicono oggi coloro, che li  sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all'inedia per rigettarli  sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.  Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell'Italia  Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della  spregevole genìa che disgraziatamente regge l'Italia e che seminò l'odio e lo squallore là dove  noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le  generazioni e miracolosamente iniziato. E se vogliamo conservare un avanzo di fiducia nella  gioventù, chiamata a nuove pugne e che può avere bisogno della nostra esperienza, io consiglio  ai miei amici di scuotere la polvere del carbone moderato, con cui ci siamo anneriti e non  ostinarsi al consorzio dei rettili, striscianti sempre a nuovi tradimenti. E chi sa, che non si  ravvedano gli epuloni governativi, lasciati soli a ravvolgersi nella loro miseria ?  Comunque, sempre pronto a gettare il mio rotto individuo nell'arena dell'Unità Nazionale,  anche se dovessi ancora insudiciarmi, io non cambio oggi la mia determinazione, dolente di  non poter servire.  Lunga è la storia delle nefandezze perpetrate dai servi d'una mascherata tirannide, e longanime  popolazioni care al mio cuore, perchè buone, infelici, maltrattate ed oppresse; dolentissimo di  contrariare l'opinione di Voi, che tanto amo ed onoro. Un caro saluto ai figli dal vostro per la  vita.