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“Nel mezzo del cammin di nostra vita…”  così inizia il poema Dantesco, così inizia il più grande e fantastico viaggio mai concepito dalla mente umana,....

Giuseppe Cosenza nacque a Luzzi il 17 Settembre 1846 da Carmela Santagata e Raffaele Cosenza. A tre anni perde la madre a 7 il padre. Rimasto orfano, fu allevato ...

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Decorazioni al valor militare: medaglie d'oro

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Poiché ci si avvicina alla Pasqua non posso non parlare di uno dei più grandi capolavori del  mondo che meglio rappresentano la Passione di Gesù, l'Ultima Cena...

La Bibbia non riporta la data di nascita di Gesù. Anche se non specifica la data di nascita, la Bibbia fornisce due indicazioni che ci porta a concludere che la ...

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Da un documento custodito (vedi immag. sotto) nella Casa Buonarroti (Firenze) si evince uno dei  menù preferiti da Michelangelo. In questo documento ...

Epitaffio parola greca  epitáphion, ”ciò che sta sopra al sepolcro”  quindi iscrizione funebre. Scopo dell’epitaffio, onorare e quindi ricordare il defunto. ..



I CANTO INFERNO

“Nel mezzo del cammin di nostra vita…”  così inizia il poema Dantesco, così inizia il più grande e fantastico viaggio mai concepito dalla mente umana, il viaggio compiuto da Dante nei tre regni dell'Oltretomba (Inferno,  Purgatorio, Paradiso), viaggio che compie in sette giorni nella primavera del 1300, Dante aveva solo 35 anni.  All'inizio del viaggio il poeta si smarrisce in una selva oscura “… mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita…”  ma proprio entrando in questa selva, si trova di fronte a tre ostacoli le tre fiere (la lonza, il leone e la lupa), questi rappresentano i tre peccati della chiesa Romana:

la Lonza rappresenta la lussuria,

il Leone rappresenta la superbia,

la Lupa l’avarizia, l’avarizia che Dante indica proprio nella curia romana, Dante in più canti si scaglia contro la chiesa, ma questo lo vedremo più avanti. Di fronte alle tre fiere Dante arresta il proprio passo per lo spavento fino a quando il poeta incontra il primo personaggio della Commedia (si ricorda che il nome di divina gli fu attribuito dal Boccaccio nel 1555).

Dante nel vedere questo personaggio impaurito come era gli parla, quasi implorandolo dice, 

“Pietà di me chiunque tu sia o spirito o uomo reale,

 e l’altro rispose 

uomo non sono ma lo fui, i miei genitori furono Lombardi,

ambedue Mantovani di nascita,

nacqui all'epoca di Giulio Cesare,

sebbene alla sua fine,

visse a Roma sotto il buon Augusto,

Dante lo riconosce era Virgilio ,  e gli si rivolge  quasi sottomesso dicendogli  

"...O lume e Onore degli altri poeti... "

questo era stato mandato da Santa Lucia, questa da San Bernardo e quest' ultimo dalla Madonna  in persona per aiutarlo.

C’è da chiedersi come mai proprio Virgilio? Perché non Omero, perché non Sant’Agostino o un altro grande poeta, probabilmente perché  Virgilio in quel particolare momento storico era considerato il profeta pagano del cristianesimo.

Prezzolino dice che la teologia di Dante è diversa dalla teologia della Chiesa tanto  che Dante fa molte trasgressioni che la Chiesa non sopporta, tanto  che nel 1380 succede che i Domenicani in Piazza a Bologna bruciano il Monarca, altri ancora affermano che bruciano anche  la Divina Commedia.

Una delle tante trasgressioni del Sommo Poeta la si trova per esempio nel XXVI Canto  del Purgatorio, siamo appena appena sotto al paradiso,  qui troviamo  sodomiti e  ermafrodite e questi come se non bastasse  si incontrano, si abbracciano, si baciano, ecc. eppure  questi sono destinati al paradiso, ricordo che il  Purgatorio  per chi non lo sa, è il più cristiano dei regni. Nelle letteratura veneta quella precedente a Dante in quella didascalica di Giacomino da Verona si parlava solo di Inferno e Paradiso il Purgatorio è stato aggiunto successivamente. Un’altra grande trasgressione  del Sommo Poeta per esempio e  mettere a guardiano del più cristiano dei regni un suicida, addirittura un pagano Marco Porcio Catone Uticense

Noi tutti abbiamo letto Dante come il più osservante delle leggi canoniche della chiesa come il più osservante della teologia cristiana, Giuseppe Prezzolini diceva che dante aveva un amore innato verso tutte le creature ma le sue posizione verso alcuni dannati e verso alcuni beati hanno fatto oscillare sempre le fondamenta della chiesta cattolica e della teologia tradizionale.

Ritornando a Virgilio che come tutti sappiamo rappresenta la ragione, nell’aiutare Dante fa una profezia, infatti dice a Dante riferendosi alla Lupa, tranquillo verrà un giorno il Veltro che si ammoglierà con essa e la farà morire con doglie, Veltro che per alcuni studiosi sarebbe un cane da caccia simile ad un levriero agile e veloce per altri sarebbe la scrittura ma questo lo vedremo in seguito. Ritornando all’incontro con Virgilio, dopo essersi in un certo senso presentati Virgilio propone a Dante di scendere nelle profondità dell’inferno fra le genti che soffrono per proseguire nel viaggio che tutti sappiamo, così Virgilio muove il passo e Dante fra tante preoccupazioni e paure lo segue nell’ Antinferno.

 

II CANTO INFERNO

Nella poca luce del crepuscolo Dante fa presente le sue preoccupazioni ad affrontare il viaggio infatti dice a Virgilio    io non sono nè San Paolo che viaggiò in paradiso (come dice nella II lettera ai Corinzi), nemmeno Enea al quale tu hai permesso di Viaggiare nell’Aden, io non ho nessun titolo per fare ciò, ma  Virgilio  lo rincuora dicendogli che ci sono tre donne che hanno organizzato il suo viaggio e sono: Beatrice, la Madonna e Santa Lucia viaggio organizzato in nome dell’amore.

Parole capaci di togliere al poeta ogni dubbio tanto da chiedere 

“...maestro duca mio vai avanti io ti segno”.

 

 III CANTO INFERNO

Questo terzo canto inizia con un verso famosissimo forse fra i più belli 

“Per me si va ne la città dolente, 

per me si va ne l'etterno dolore, 

per me si va tra la perduta gente”.

una terzina di una forza icastica meravigliosa tutti i tre versi iniziano tutti “per me, per me, per me”, il poeta nel suo cammino nota una turba in questa turba troviamo le anime di quelle persone che in vita sono stati incapaci di prendere decisione, fra queste anime troviamo un personaggio famosissimo Papa Celestino V colui che per mancanza di coraggio rinunciò al papato.

Mentre Dante osserva le anime di questi personaggi  vede arrivare  il traghettare delle anime Caronte,  Caronte  che si rifiuta di far salire sull’imbarcazione Dante perché si accorge che una persona viva, ma  Virgilio  lo  convince a farlo salire, saliti  sulla chiatta  durante tutto il tragitto questa  è circondata da numerosi dannati che si aggrappano  all’imbarcazione tanto che Caronte  colpisce questi dannati con i remi per  farli sprofondare  nell’onda bruna dell’Acheronte. Sul finire del canto un colpo di scena, si sente un grosso tuono una luce color vermiglio (color rosso) abbaglia Dante tanto da fargli perdere i sensi e di non sapere mai come ha proseguito il viaggio.

 

 IV CANTO INFERNO

Con questo canto il IV  finisce l’anti inferno e entriamo nell’inferno vero e proprio Dante rinviene dallo svenimento avuto sul finire del III canto  e si trova al di là  del fiume Acheronte esattamente nell’Imbo dove stanno le anime dei peccatori, peccatori si ma di un peccato involontario cioè quelli che non hanno avuto la grazia del battesimo, una lunghissima lista di nomi se non vado errato 48  tra i primi nomi Abramo, Noè,  Mose, ecc. ecc., in questo stesso canto Dante e  Virgilio incontrano un  gruppo di illustrissimi  poeti:  Omero  poeta sovrano, Orazio, Ovidio e Lucano, tutti insiemi fanno un sacco di  feste  nel vedere Dante e  Virgilio  e tutti insieme conversando in modo parsimonioso  attraversano un fiume al di là del quale si imbattano in un  castello cinto da sette mura, un luogo magico che cela  segreti che a noi non ci è dato sapere.

In questo castello incontrano altri tre grandi spiriti arabi Avicenna, Averroè e il Saladino, si ricorda che siamo in tempo di crociate, di lotte sanguinarie fra musulmani e cristiani

 

V CANTO INFERNO

Questo canto è uno dei più belli e conosciuti, uno dei più famosi, uno dei canti probabilmente più studiati, qui si scende nel secondo cerchio quello dei lussuriosi qui si trova Minosse 

“Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia: 

essamina le colpe ne l'intrata…”; 

avvinghiandosi e menando come fosse una frusta la coda indica di quanti gironi l’anima del dannato, del peccatore deve scendere.

Questo cerchio è caratterizzato da un vento forte e  tempestoso che tormenta i peccatori coloro che non hanno saputo resistere alle lusinghe dell’amore sensuale, qui troviamo Elena, AchilleParide, Cristano, Semiramide e tanti altri ancora, tutti quanti sono avvolti in questo vortice che li sbatte a destra e a sinistra come foglie al vento,  fra tutte queste figure  l’attenzione di Dante va dritta su due  personaggi, le uniche due persone abbracciate in questo vortice tormentoso,  Paolo e Francesca, tanto che Dante rivolgendosi a Virgilio dice: 

«Poeta, volontieri parlerei a quei due che ’nsieme vanno, 

e paion sì al vento esser leggeri».      

Virgilio  risponde

«Vedrai quando saranno più presso a noi;

e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno». 

E ancora Dante li descrive

“Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme

al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate” 

Ma quando questi finalmente giungono davanti al poeta Francesca si rivolge a Dante con una delicatezza una dolcezza disarmante infatti dice;

...O animal grazioso e benigno 

che visitando vai per l’aere perso 

noi che tignemmo il mondo di sanguigno, ....

se fosse amico il re de l’universo, 

noi pregheremmo lui de la tua pace, 

poi c’hai pietà del nostro mal perverso

bellissimi versi, mentre Francesca parla e racconta con delicatezza infinita il suo amore per Paolo questo se ne sta zitto e piange, Francesca racconta a Dante;

… Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende 

prese costui de la bella persona 

che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.                 

 Amor, ch’a nullo amato amar perdona, 

mi prese del costui piacer sì forte, 

che, come vedi, ancor non m’abbandona.            

...Amor condusse noi ad una morte: 

Caina attende chi a vita ci spense... 

 e Dante quasi piangendo dice

...Francesca, i tuoi martìri 

a lagrimar mi fanno tristo e pio...

ma Dante incalza ancora, vuole sapere il perché, e Francesca prosegue;  

... Noi leggiavamo un giorno per diletto 

di Lancialotto come amor lo strinse; 

soli eravamo e sanza alcun sospetto…  

e poi ancora continua e racconta fino a quando ...

...la bocca mi basciò tutto tremante. 

Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 

quel giorno più non vi leggemmo avante...

Dante nel sentire Francesca con quanto amore racconta si emoziona, probabilmente si immedesima pensando alla sua Beatrice.

 

 VI CANTO INFERNO

 Il sesto canto ci introduce nel terzo  cerchio quello dei golosi, a guardia di questo cerchio mette Cerbero figura surrealistica  dalle tre  gole in questo luogo troviamo un suo concittadino Ciacco, Dante per questo personaggio nutre non poca  simpatia questo fa a Dante una previsione sulla sua  Firenze gli dice  che la fazione dei Neri con a capo Corso Donati manderà in esilio tutti i Bianchi a cui Dante apparteneva con l’aiuto di Bonifacio VIII per il quale Dante nutriva odio ed aveva sempre espresso palesemente una forte avversione. 

 

  VII CANTO INFERNO

In questo quarto cerchio troviamo due categorie di peccatori gli avidi e i prodighi questi peccatori rotolano dei macigni molto pesanti, sollevano pesi enormi.

I prodighi odiano gli avari perché attaccati al denaro e alle loro cose, mentre gli avidi odiano i prodighi perchè sperperano denaro e cose, insomma peccatori che rappresentano gli estremi.

Per questi peccatori Dio ha scelto una sua ministra la Fortuna per distribuire equamente le fortune.

Da questo quarto cerchio si scende al quinto e troviamo un’altra accoppiata di peccatori opposti fra loro gli iracondi che si puniscono da soli si picchiano si mordono e gli accidiosi cioè i pigri questi stanno sempre dentro la melma della palude.

 

VIII CANTO INFERNO

Qui Dante e Virgilio  si trovano in un luogo paludoso, e guardandosi un pò in giro intravedono  qua e là in lontananza  delle fiammelle rosse come se fossero dei segnali di fuoco tanto che Dante spaventato  chiede a   Virgilio   cosa fossero e quale fosse il loro significato, ma  Virgilio   come sempre lo rincuora dicendogli di stare tranquillo, di non preoccuparsi poiché sta per arrivare per mare qualcuno che gli spiegherà tutto Fleggias altra figura mitologica figura simbolica dell’IRA, questo era l’addetto a traghettare i peccatori per la paluda ed immergergli nella stessa.

Nell’ attraversare la palude melmosa uno spirito cerca di aggrapparsi alla barca, Dante in un primo momento domanda chi fosse, ma guardandolo più da vicino e con molta attenzione riconobbe quel peccatore era Filippo Argenti nemico di Dante, appartenente alla fazione dei neri, questo veniva chiamato cosi perchè essendo una persona molto ricca ferrava il proprio cavallo con ferri in argento.

 Comunque  Virgilio  non vuole perdere tempo e invita Dante a  continuare il viaggio poiché di lì a poco raggiungeranno la città di Dite, in questa Dante troverà altri peccatori.  Arrivati alla città trovano un grosso numero di diavoli con i quali  Virgilio  dopo un primo scambio di parole, parla con questi quasi in segreto e li convince a far passare anche Dante.

Qui il Sommo Poeta fa una cosa molto bella, si rivolge direttamente al lettore infatti dice 

“Pensa lettore se io mi sconfortai al suon delle parole maledette…"

la paura era tanta ma così tanta da rivolgersi al lettore per renderlo partecipe delle sue preoccupazioni.

 

IX CANTO INFERNO

Dante e Virgilio si trovano nella Città di Dite, qui incontrano un terzetto di donne che al posto dei capelli hanno delle serpi sono le cosiddette Erinni (nella mitologia Greca ) Furie (nella mitologia Romana) serve di Proserpina regina dell’inferno queste minacciano Dante ed  invocano Medusa affinché lo pietrifichi, Dante come al solito è molto impaurito tanto che  Virgilio lo aiuta a coprirsi  gli occhi per non farlo guardare, perché se guarda la  Gorgona lo pietrifica, proseguendo vede nelle acque delle altre anime che sguazzano e gridano terrorizzate, ma ad un tratto Dante sente un rumore, in un primo momento ha paura ma sempre con l’aiuto di  Virgilio  scopre che si tratta di un messo celeste venuto in aiuto, tanto e vero che questo con una verghetta tocca la porta di  Dite e questa si spalanca, alla vista di Dante appare una campagna disseminata di pozzi di fuoco qui sono condannati gli eresiarchi i capi delle varie dottrine eretiche.

 

 X CANTO INFERNO

Siamo sempre nella città di  Dite i dannati sono gli eretici, ma Dante osserva con particolarmente interesse gli epicurei cioè i negatori dell’immortalità dell’anima.

In questo canto vengono evidenziate due figure Cavalcante Cavalcanti padre di Guido, amico e guida di Dante mentre l’altro e Farinata degli Uberti ghibellino.

Cavalcante chiede notizie di suo figlio, gli dice come mai suo figlio non era con lui e Dante risponde sono qui per merito di Virgilio   per il quale tuo figlio non ebbe molta simpatia, tutto questo preoccupa molto Cavalcante perché pensa che suo figlio sia morto, ma Dante lo tranquillizza dicendogli di non preoccuparsi perché suo figlio è vivo.

Nel colloquiare con Farinata questo fa una previsione dice a Dante;

 non passerà molto tempo e tu saprai quando l’arte di tornare in patria dall’ esilio sia un’arte impossibile,

 e poi ancora incalza,

perché tanta crudeltà nel perseguitare la mia famiglia ?

Dante da parte sua ribatte

ricordati del sangue che avete fatto spargere nella battaglia di Montaperti

e Farinata

ricordati che io fui il solo che nel convegno di Empoli difesi la città di Firenze che volevano distruggere.

A queste parole Dante cambio il suo atteggiamento nei confronti di Farinata inizia a rivolgersi con maggior rispetto.  

 

XI CANTO INFERNO

Qui ci si trova in un luogo dove si e circondati di un puzzo indescrivibile, intollerabile proveniente da una moltitudine di anime, in questo canto troviamo un altro personaggio famoso Anastasio II questo fu colpito dalle ire celesti per aver concesso la comunione a Fotino reo di eresia.

 Virgilio   suggerisce a Dante di proseguire con calma, perché a questo puzzo ci si deve abituarsi gradualmente, insomma  Virgilio  si comporta come una saggia guida.

Dopo che  Virgilio   spiegò a Dante tante cose con molta perizia, lo stesso invita Dante di riprendere il cammino infatti si intravede già la costellazione dei pesci che significa che inizia ad albeggiare.

 

XII  CANTO INFERNO

 Con il dodicesimo canto si scende nel settimo cerchio si tratta di una discesa molto scomoda la montagna che si apprestano a scendere è dirupata, il terreno smotta, sbriciola sotto ogni passo.

Sopra queste rovine troviamo l’infamia di Creti cioè un mostro il Minotauro a protezione di cosa non c’è dato sapere.  

Virgilio dopo aver in qualche modo zittito questo mostro, descrive queste rovine, nel descrivere queste  rovina afferma che la causa principale dello smottamento era dovuto ad un antico terremoto avutosi quando Gesù morì.

 Successivamente lo invita a guardare la cosiddetta riviera di sangue cioè il Flegetonte uno dei tanti fiumi infernali.

Qui come tutti gli altri canti troviamo altri personaggi che un po’ sono i guardiani del luogo, i Centauri questi sono molto belli e fieri ma muti, sono: FOLO, CHIRONE e NESSO che si rivelano amici, infatti CHIRONE dice a NESSO di aiutare Dante e questo si colloca sulle spalle di NESSO in altre parole lo aiutano a proseguire il suo cammino. I prossimi personaggi che incontrano sono i tiranni: Alessandro Magno, Ezzelino da Romano, Guido da Montfort  Vicario dei D’Angiò il cui cuore si dice fu conservato in un edificio di Londra.

 

XIII  CANTO INFERNO

Finalmente giunti al di là del fiume Flegetonte , Dante e la sua guida si trovano in un  paesaggio boschivo, si tratta di un bosco piuttosto strano,  si sentono  striduli  di uccelli e grida  umani, siamo nel luogo abitato  dalle Arpie, come al solito Dante è molto spaventato specialmente nel momento in cui sente un lamento provenire  da uno specifico arbusto molto vicino a lui, il pellegrino in un primo momento pensava che i lamenti venissero da umani nascosti dietro gli arbusti, ma la sua guida Virgilio lo invita  a staccare un  ramo dalla pianta a lui vicino, il Sommo Poeta lo fa  e con molta prudenza e nello spezzare il rametto sente  un lamento umano straziante, anzi una voce gli dici perchè mi scerpi e ancora continua “uomini fummo e or siamo fatti sterpi”. Insomma siamo nel luogo, nel bosco dei suicidi e la voce che si lamenta in modo straziante è quella di Piero della Vigna (consigliere segreto di Federico II) questo è un racconto simile a quello dell’Eneide quando appunto  Enea per adornare l’altare di mirti strappa il ramo e viene fuori la voce di Polidoro figlio di Priamo,  ma questa è un’altra storia, Virgilio ancora dice a Dante prima che si cicatrizza la ferita puoi domandagli tutto quello che vuoi,  ma Dante impaurito si ritrae e la sua guida domanda ma vi potete mai liberare e l’anima del peccatore risponde di no anzi dice quando Minosse  manda l’anima del peccatore in questo luogo  l’anima diventa un arbusto.

 

XIV CANTO INFERNO

 Siamo nel terzo girone settimo cerchio luogo dove sono posti a soffrire i bestemmiatori questi corrono di continuo, in questo luogo troviamo sodomiti e usurai, questo luogo è caratterizzato dal sabbione ardente qualcosa che ricorda un pò il deserto Africano.

Fra tutti i peccatori presenti Dante ne osserva uno in particolare, uno che se ne sta disteso quasi a non interessarsi di quello che succede Capaneo (Personaggio del mito classico, figlio di Ippono o e Astinome, uno dei sette re che assediarono Tebe.

Stazio nella Tebaide lo descrive come gigantesco, di ampia tracotanza, al punto che osò sfidare Giove mentre scalava le mura della città e fu da lui fulminato.

Dante lo colloca tra i bestemmiatori del terzo girone del VII Cerchio dell'Inferno, sdraiati nel sabbione rovente sotto la pioggia di fuoco.

Dante osserva il dannato di dimensioni imponenti, che sembra trascurare il tormento provocato dalle fiammelle che cadono dall'alto e ne chiede conto a  Virgilio  .

Capaneo stesso risponde dicendo di essere da morto tale e quale a come era da vivo e dichiarando che Giove (Dio) non potrebbe vendicarsi di lui neppure scagliandogli contro tutte le folgori prodotte da Vulcano.

 Virgilio   ribatte che la sua superbia ne accresce la pena e che la sua rabbia è la sola pena adeguata a lui.

Dopo aver spiegato a Dante chi è il dannato,  Virgilio  invita il discepolo ad allontanarsi, dal personaggio tipico rappresentante della superbia e della bestemmia.

Durante questo viaggio si trovano difronte ad un ruscello e Dante domanda alla sia guida cosa fosse, vuole spiegazioni, Virgilio risponde attraverso un racconto molto lungo racconta di una grande statua con la testa d’oro il corpo d’argento ed i piedi di argilla dagli occhi fuoriescono lacrime che vengono giù a raccogliersi in una cavità per poi formare i 4 fiumi infernali cioè l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte e il Cocito insomma questa statua e l’allegoria del grande Veglio.

 

XV CANTO INFERNO 

Qui troviamo i due  pellegrini Dante e Virgilio  che camminano lungo gli argini  del fiume Flegetonte il fiume di sangue che attraversa il sabbione infuocato in questo luogo sono collocati i sodomiti e durante il loro cammino uno di questi si avvicina con molta gentilezza e tirando il lembo della veste di Dante le parla,  Dante lo guarda lo riconosce subito addirittura gli si rivolge dandoci del voi, trattasi di Ser Brunetto Latini, in un certo senso si meraviglia di trovarlo in quel posto, perchè lo stimava moltissimo era stato suo maestro.

Dante è molto felice di incontrarlo e sempre camminando perché non poteva fermarsi perché fermarsi anche un attimo significava poi restare fermo cento anni senza avere la possibilità di ripararsi della pioggia di fuoco, così camminando Brunetto Latini chiede al suo ex discepolo il perché del suo viaggio e chi era l’uomo che lo accompagnava.

Dante risponde di essersi smarrito in una valle e che successivamente gli era apparso Virgilio colui dice Dante che mi riconduce sulla retta via.

 

 XVI  CANTO  INFERNO 

Dante e ormai giunto sull’ orlo del settimo cerchio dove si sente il suono della cascata del fiume Flegetonte tre sono i sodomiti che si staccano da tutti gli altri e corrono verso Dante, giunti davanti al poeta iniziano  a girargli attorno come lottatori sono le anime di tre  fiorentini molto celebri al tempo di Dante sono: Jacobo Rusticucci un uomo molto ricco e molto influente, Guido Guerra politico e combattente e il saggio Aldobrandi appartenenti tutti alla vecchia classe dirigente fiorentina.

 Nonostante i loro peccati sono comunque delle figure nobili che Dante vorrebbe abbracciarli ma non può poiché deve ripararsi dalla pioggia di fuoco, parla con i tre e gli racconta di essere anche lui un fiorentino così i tre chiedono notizie su Firenze ma soprattutto chiedono a Dante se cortesia e valore dimorano ancora in Firenze, Dante risponde informandoli della decadenza politica morale di Firenze i tre successivamente si allontanano e Dante rimane ad osservare la cascata che gli ricorda quella del torrente Acquacheta, (che era una cascata alta circa 70 mt e larga 35 mt 

  

XVII CANTO INFERNO

Un canto questo molto movimentato, particolare, troviamo i due pellegrini Dante e Virgilio in volo sulla Groppa di GERIONE che li porta dal cerchio dei violenti il settimo all’ottavo.

Dante descrive Gerione lo descrive come una figura dalla faccia bella e giusta mentre la rimante parte del corpo era di serpente e che presentava una moltitudine di colori.

In altre parole Dante con questa figura ci sta dicendo che la menzogna la percepiamo come una persona con una bella faccia molto pulita, molto giusta, ma proprio questa bellezza nasconde la sua vera natura quella di ingannare le povere vittime.

 

XVIII CANTO INFERNO 

In questo canto troviamo tante bolge questo canto ci porta in un luogo molto terrificante alle malebolge fatto di fossi circolari da qui partono e si intrecciano ponti e ponticelli collegati fra loro.

Qui le anime passeggiano incrociandosi si trovano plotoni di ruffiani e di seduttori, fra questi troviamo Giasone capo della famosa spedizione degli argonauti che durante la ricerca del vello d’oro (Il Vello d'oro è un oggetto presente nella mitologia greca che si dice avesse il potere di curare ogni ferita.

Si tratta del manto dorato di Crisomallo, un ariete alato capace di volare che Ermes donò a Nefele.

Il Vello fu in seguito rubato da Giasone.) Giasone trovava il tempo di sedurre varie donne fra cui Isifile (Personaggio mitologico), figlia di Toante re di Lemno con un inganno salvò la vita al padre quando le donne lemnie uccisero tutti gli uomini dell'isola, colpevoli di trascuratezza nei loro confronti.), andando avanti in una specie di pozza in una brodaglia fra i tanti personaggi troviamo TAIDE la prostituta in questo canto iniziamo a intravedere una certa fisicità che diventa sempre più sgradevole.

Siamo nella melma nell’ orrore fisico in una vera fogna.

 

XIX CANTO INFERNO

I due poeti avanzano per il basso inferno lasciandosi alle spalle le bolge dell’ottavo cerchio e giunti all’alto ponte che sovrasta la terza bolgia Dante lancia un’infettiva contro i simonieci gli ecclesiastici che riducono senza nessuno scrupolo la chiesa ad uno strumento di ricchezza.

Il fondo di questa bolgia e ricoperto di tantissimi fori dai quali spuntano le gambe dei dannati con le piante dei piedi che bruciano come se ci fossero delle fiammelle, il Poeta è colpito da un peccatore in particolare che si agita più degli altri trattasi dell’anima in testa in giù e Papa Nicolò III questo sarà spinto più giù da Bonifacio VIII che era ancora in vita ma nel momento del trapasso è destinato a prendere il suo posto ed entrambi  saranno  spinti ancora più  giù da papa Clemente V.

La sua guida Virgilio   soddisfatto delle dure parole di Dante lo prende in braccio e lo riporta sull’argine della bolgia fino al successivo ponticello

 

XX CANTO  INFERNO

In questo canto in una specie di vallone vede una turbe di dannati tutti lacrimanti camminano lentamente e presentano una particolare connotazione, tutti presentano la testa girata nel senso opposto deldel proprio corpo, all’incontrario obbligati a camminare a ritroso.

Qui Dante si rivolge direttamente al lettore dicendo “pensa se io non ero scosso di vedere questo” ma questi chi erano,  questi  sono i Maghi e gli Indovini,  fra questi troviamo Tiresia indovino il quale avendo una volta colpito con una verga due serpenti perse per sette anni il sesso maschile e lo ritrovò quando compi la stessa cerimonia al contrario, fra questi troviamo Manto figlia di Tiresia fondatrice della città di Mantova,  poi ancora troviamo gli astrologhi, i fattucchiere e tanti altri, ma e tempo di andare poiché  e già l’aurora  Virgilio  invita   Dante di seguirlo.


Giuseppe Cosenza nacque a Luzzi il 17 Settembre 1846 da Carmela Santagata e Raffaele Cosenza. A tre anni perde la madre a 7 il padre. Rimasto orfano, fu allevato dalla nonna, Angela Colletta, che lo mise in bottega presso il sarto Nicola Amoroso poi presso il falegname Luigi Pellicorio per poi diventare garzone presso Alfonso Alfano, durante questo periodo nei momenti liberi   si impegna a disegnare con qualsiasi mezzo e su qualsiasi supporto. Per il Sig. Alfonso Alfano, realizza con molta maestria un ritratto ad olio. Fu proprio Alfonso Alfano che nel 1853, lo fece conoscere al pittore Giovan Battista Santoro, pittore che in quel periodo si trova a Luzzi  per lavoro e che diede lezioni di pittura al Cosenza, il Santoro sin da subito notò la tecnica istintiva e le capacità  del ragazzo tanto da farlo diventare il proprio discepolo. Quando  Santoro si allontana da Luzzi, il Cosenza inizia a guadagnare decorando l’interno delle case signorili di Luzzi  ma non solo, inizia a  dipingere quadri nelle varie Chiese di Luzzi , uno dei primi committenti fu Luigi Barberio, che dopo avergli fatto decorare la sua casa sita in C\da   Monachelle , condusse il pittore a Cosenza per fargli abbellire,  il suo vasto palazzo, da qui fu condotto dai parenti del Barberio nella città di Napoli per dipingere i propri appartamenti dopo aver notate le grosse capacità del pittore Luzzese.

Proprio in questo periodo, cioè intorno alla prima metà degli anni ’60 il giovane, ebbe le prime committenze private come quelle dei Sig. Luigi Barberio, e Ferdinando Vivacqua, ma anche ecclesiastiche, fra queste meritano essere ricordate Ecce Homo, eseguito per laChiesa Madonna della Cava, e Estasi di San Pietro d'Alcantara 1864, questi furono le prime sue opere ecclesiastiche, quadri che gli valsero fama e protezione, in seguito ebbe comunque un grandissimo successo come marinista, successive a queste San Francesco Saverio, per la Chiesa di S. Giuseppe; Beato Umile da Bisignano e Crocifissione, 1866, per la Chiesa della Madonna della Cava.

Nel 1867 ebbe dalla Provincia di Cosenza una borsa di studio ottenuta grazie all’insistenza di   Ferdinando Vivacqua   e  Luigi Barberio, che  notato le capacità artistiche di Cosenza lo presentano al Senatore Sprovieri  questi fece accordare a Giuseppe  Cosenza, dall'Intendenza della provincia di Cosenza, una borsa di studio di 400 lire,  che gli permise di trasferirsi a Napoli, per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Qui fu allievo di Vincenzo Marinelli, il quale lo spinse a partecipare alla Grande Esposizione Artistica Napoletana del 1868, dove presentò Marina di Posillipo, Scugnizzi, Cercatori notturni di mozziconi di sigari, dipinti questi acquistati da un’artista parigino molto ricco Maurice Locrapelle.

Nel 1872 partecipa alla “Gara Internazionale di Roma”, vincendo il primo premio mentre (F.P. Michetti pittore ed amico del Cosenza che lo ospitò per un breve soggiorno  nella sua residenza di Francavilla  ottenne il secondo!); fu presente ancora con l’opera La vecchia Napoli, alla locale Promotrice del 1972 fino a quella del 1880. (1874, I bagni di Francavilla e Ricordo di Chieti, dipinti quando era ospite a casa di Francesco Paolo Michetti in Abruzzo), di Genova dal 1873 al 1885 (1878, Da Mergellina a Posillipo e Ricordo dei bagni in Abruzzo; 1879, La merenda in barca), a quella di Firenze del 1874 (La raccoglitrice di frutta e Marina di Resina) e di Torino dal 1876 al 1882. Anche se nel 1873, chiamato dal Locrapelle, parte per Parigi, dove affrescò all’amico il suo sontuoso palazzo e dove dipinse quadri per la Chiesa di Santa Dorotea. Qui conobbe il canonico londinese prof. Welliston, che lo volle a Londra per ritoccare gli affreschi della Chiesa cattolica della Misericordia.  Durante questo soggiorno londinese, nel marzo 1875, prese parte ad un'esposizione artistica nazionale. Il Cosenza presentò due soli quadri: I battelli sul Tamigi e Londra nella nebbia, tanto pregevoli per fattura e naturalezza che furono acquistati dal governo per arricchire le Gallerie Inglesi A Londra pensava addirittura di stabilirsi, non lo fece solo per le condizioni climatiche, così nel novembre del ’75 rientrò a Napoli e riaprendo il suo vecchio studio.

L’anno successivo chiamato dall’Amministrazione Provinciale per dipingere il salone delle adunanze, l’artista eseguì, o meglio raffigurò la cantante spagnola Emilia Contreras, che successivamente sposò il 15 aprile 1876 e da cui ebbe quattro figli, Raffaele, Amalia, Carmela e Mario

Partecipa alle Mostre di Genova dal 1873 al 1885 (1878, con Da Mergellina a Posillipo e Ricordo dei bagni in Abruzzo; 1879, con La merenda in barca); alla Mostra di Firenze del 1874, con La raccoglitrice di frutta e Marina di Resina;  a quella di Brera a Milano dello stesso anno con Pastorella d’Abruzzo e Il cortile delle lavandaie e del 1875 con Studi di marina; alle Promotrici di Torino del 1876, con Una passeggiata nel bosco di Portici, e Una passeggiata per mare, del 1878, con Ricordo dei bagni in Abruzzo e Scinnite, signò, venite, e del 1882; all’Esposizione Italiana di Londra, del 1888, con quindici Vedute di Napoli.

Una collezione di suoi acquerelli è di proprietà Gotti a New York. I Bagni a Posillipo è conservato dal figlio Mario a New York; disegni, studi, schizzi e lavori minori sono custoditi dai familiari.  

Nel 1886 per assecondare la moglie spinta dalla nostalgia per i propri genitori partono per l’america, durante questo soggiorno l’artista si fece conoscere come pittore dipingendo, presso l’Associazione Artistica di New York, in sole sei ore, la grande tela Villaggio di negri in bivacco. Questo fatto gli consentì di essere chiamato alla carica di direttore presso la “Società World’s fair” di Chicago. Ma qui rimane pochissimo tempo infatti si trasferisci a New York, ove si stabilì definitivamente nel 1890, assieme alla famiglia.

Nel 1905 fece erigere, su progetto del figlio Raffaele, ingegnere, un edificio da lui affrescato e che tuttora esiste.

Nel 1906 fu nominato Presidente Generale delle Arti nella Giuria Internazionale Colombiana, nomina che spinse il Governo Italiano a conferirgli la Commenda della Corona d’Italia.

Muore il 2 giugno del ’22 e le sue spoglie riposano nel cimitero Calvario Cattolico di New York.

La sua pittura è caratterizzata da scene popolari, di figure di scorci e di quadri sacri, ma soprattutto di rappresentazione   marinare, realizzate con molta perizie e maestria molto   luminose.

Duole assai che si taccia sul Cosenza, mentre i suoi quadri sono ammiratissimi in tutta Italia ed all’ estero, triste destino dei grandi personaggi della storia, obliati in Patria ed onorati all'estero.

                                                                                                                                                                                       Arch. Franco DIMA


Alcuni fanno risalire la nascita della cartolina illustrata al 1796, quando il litografo tedesco Miesler mise in commercio alcune sue litografie a ricordo di Berlino, formato cartolina, anche se gli esperti non sono d'accordo. Anche se doveva viaggiare per posta sempre in busta chiusa. Tutti riconoscono invece come antenata della cartolina illustrata la cartolina postale, che fu proposta in Germania nel 1865 da un funzionario delle poste germaniche Henrich Von Stephan, ma utilizzata per la prima volta dalle poste austro-ungariche il 1/10/1869. La cartolina postale, in Italia venne utilizzata dal 01/01/1874 si trattava di un cartoncino di cm. 11,5 x 8.Nel lato anteriore, destinato all'indirizzo, all'interno di una cornice, vi era il francobollo prestampato con l'effige del Re Vittorio Emanuele II, lo spazio per il bollo, e la scritta cartolina postale; sotto questa scritta il valore della cartolina e cioè " Dieci Centesimi " e sotto a questa lo stemma sabaudo senza decorazioni; il lato opposto era dedicato alla corrispondenza. Nel 1877 le cartoline postali incominciarono ad essere decorate con un trofeo di bandiere attorno allo stemma sabaudo; il formato era di cm. 13,8 x 7,8. Nel Congresso Mondiale dell'Unione Postale Universale del 1878, vennero fissate le dimensioni massime accettate come standard e cioè cm. 14 x 9. La cartolina postale con risposta pagata era composta da due parti piegate lungo una linea perforata per lo strappo e l'utilizzo; era di colore rosa con una seconda parte avorio per destinazioni nazionali, oppure verde per destinazioni internazionali.La cartolina postale segnò una vera e propria rivoluzione del servizio postale, perchè non dovendo più viaggiare in busta chiusa, il suo impiego consentì nel volgere di pochi anni l'uso e l'affermazione della cartolina illustrata.La prima fase della trasformazione della semplice e austera cartolina postale in cartolina illustrata si ebbe con le cartoline pubblicitarie commerciali; queste inizialmente furono cartoline postali sulle quali si apponeva un timbro della ditta emittente, timbro che si arricchì poi con fregi e decorazioni, fino a rappresentare anche il prodotto commercializzato. La fase successiva e determinante che trasformò veramente la cartolina postale in cartolina illustrata, fu la nascita delle cartoline commemorative, che si possono dividere in Ufficiali, emesse dall'Amministrazione Postale, e in semi ufficali private, emesse da organizzazioni o comitati promotori di importanti manifestazioni per lo più di carattere nazionale con il Placet dell'Amministrazione Postale stessa. Tra le prime cartoline commemorative ufficiali, si ricorda quella emessa nel 1895 per il 25° anniversario della liberazione di Roma, e quella emessa per le nozze del Principe Ereditario, il futuro Re d'Italia Vittorio Emanuele III, con la Principessa Elena Petrovich del Montenegro. Dal 1870 circa, si diffusero soprattutto in Germania le " gruss aus ", che in tedesco significa "saluti da". Queste erano cartoline riportanti dei "collage" litografici rappresentanti luoghi di interesse storico o turistici, con persone vestite coi costumi locali, ambulanti e scene di vita quotidiana, quale quella che si svolgeva per strada. Come si vede, le " gruss aus " erano cartoline particolarmente adatte ed usate nella corrispondenza vacanziera, conseguente alla nascita e allo sviluppo di un turismo sempre più favorito dal continuo progresso dei mezzi e delle vie di comunicazione.Le " gruss aus ", che si diffusero anche in Italia dal 1885 in avanti, furono così le prime vere cartoline illustrate paesaggistiche, e rientrano pertanto a pieno titolo nella tematica "Regionalismo", della quale costituiscono il punto di partenza per ogni collezionista.La risposta italiana alle " gruss aus ", che erano in maggior parte stampate all'estero, furono le "cartoline autorizzate dal Governo".Queste altro non erano che cartoline postali illustrate con disegni monocromatici prima, e con riprese fotografiche poi, che potevano viaggiare con una affrancatura da 10 centesimi, e cioè a tariffa ridotta, come da decreto ufficiale del 01/08/1889. Gli spazi riservati all'indirizzo, ai saluti, all'affrancatura e all'illustrazione, nelle prime cartoline illustrate autorizzate dal Governo, erano sistemati in modo diverso dall'attuale: generalmente davanti, oltre all'illustrazione, vi erano righe riservate all'indirizzo e lo spazio riservato al francobollo, mentre il retro era tutto destinato alla corrispondenza.Le prime cartoline illustrate autorizzate dal Governo, furono realizzate dall'editore Danesi di Roma, e raffiguravano solo monumenti o scorci panoramici delle più importanti città d'Italia.I paesi e i piccoli centri cittadini non hanno invece beneficiato subito di queste emissioni. Col diffondersi della fotografia, la cartolina illustrata venne adottata da tutti i centri, grandi e piccoli, e dai paesi, soprattutto per iniziativa di editori che per il Piemonte rispondevano ai nomi di Modiano, Fotocromo, Fumagalli, ecc. Per i piccoli centri, l'iniziativa venne presa da persone che avevano pubblici esercizi.Sulle cartoline era abitualmente riportato, come avviene ancora oggi, il loro nome e cognome precedut o da " Ed. " diventando così in senso lato, gli " editori locali "; davanti a questa dicitura vi è un numero che individua il clichè della cartolina. La cartolina postale, pur essendosi modificata nel modo appena descritto, continua però ad essere sempre utilizzata come semplice cartoncino per corrispondenza; oggi è bianca, di cm. 10,5 x 14,8 , senza fregi o decorazioni.Da qualche decennio, ogni tanto, vengono emesse cartoline postali celebrative, che riportano disegni di avvenimenti particolari che si vuole ricordare; anche nel periodo fascista avveniva questo, però si trattava solo di argomenti di propaganda del regime. Le attuali cartoline postali celebrative, invece, ricordano manifestazioni, avvenimenti sportivi o personaggi celebri.

 Franco Dima 

Poiché ci si avvicina alla Pasqua non posso non parlare di uno dei più grandi capolavori del  mondo che meglio rappresentano la Passione di Gesù, l'Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento Domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.  

In molti ammiriamo questo capolavoro  per diversi ragioni:  per colore, composizione, per gestualità degli  astanti, per la prospettiva  e per altri mille motivi, ma pochi sanno come ci spiega un’ Americano Timothy Verdon  uno dei maggiori storici dell'arte sacra e sacerdote,  chiamato come scrive nel suo articolo Sandro Magister,  da Benedetto XVI, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull'eucaristia e sulle Sacre Scritture.

Ma cosa questo affresco rappresenta,  o meglio  quale preciso istante rappresenti.

Eseguita tra il 1495-97, l'Ultima Cena venne commissionata dal Duca di Milano, Ludovico Sforza, rientrava in un progetto più vasto di ammodernamento e abbellimento sia del convento che della chiesa di Santa Maria delle Grazie, perché il Duca aveva pensato questa chiesa come luogo della propria sepoltura.

La direzione dell’intero progetto era stato affidato all'architetto Donato Bramante.

La Cena di Leonardo doveva assolvere alla duplice funzione: essere un'opera d'arte sacra l'immagine della “coena Domini" nella sala dove i frati consumavano i loro pasti il refettorio, dall'altra doveva soddisfare l'ambizione del Duca cioè dare lustro alla sua capitale.

Oltre all’ elemento religioso che il dipinto contiene, rappresenta l'esempio più perfetto mai visto prima della nuova prospettiva, artificio che permette di aprire la parete di fondo con l'illusione di una stanza spaziosa sormontata da un soffitto a cassettoni.

Proprio grazie alla costruzione prospettica, Leonardo riesce a focalizzare l'attenzione del visitatore sulla figura di Cristo, facendo di questa figura il punto d'incrocio dell’intera composizione, infatti tutte le linee diagonali, proprio tutte ci conducono inevitabilmente a Cristo, al centro della composizione, al centro dell’intero cosmo.

Pochi anni prima, negli anni 1480-1490 Domenico Ghirlandaio, ne dipinse due di Cene, il Ghirlandaio come Leonardo, si servì della prospettiva per dare l'illusione di uno spazio reale, ma senza assegnare alla figura di Cristo la  centralità dell’intera composizione.

Nelle Cene del Ghirlandaio, l'occhio del visitatore è portato a muoversi da sinistra verso destra, soffermandosi su ognuna delle tredici figure fra loro separate e quasi tutte uguali, tanto che non si riesce a cogliere immediatamente la figura di Gesù. Fra tutte le figure quasi identiche assumono posizioni diverse soltanto due: quella di Giuda, seduto al di qua dalla tavola, e quella di San Giovanni che riposa, con la testa tra le braccia.

Da un suo disegno conservato a Venezia, anche Leonardo in un primo momento, aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come figure isolate con Giovanni da una parte e Giuda dall’altra, ognuno preso dal propri   pensieri, ma noi tutti sappiamo che proprio durante quella cena l’Ultima  appunto, Gesù disse “ In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” quindi un annuncio forte, sconvolgente, un qualcosa che interessa tutti e non un solo individuo ed ecco ché  Leonardo capisce che la rappresentazione non può essere questa ma la soluzione che meglio rappresentava l’annuncio era  unire i dodici intorno a Cristo, così ideò i quattro gruppi ognuno  costituito da tre figure, in cui l'elemento che più colpisce è l’eloquenza di più persone uniti dallo stesso  impeto emotivo.

Un’altra particolarità del dipinto la gestualità dei partecipanti, Leonarda cerca di rappresentare quando più possibile quello che poteva essere veramente accaduto in un gruppo di uomini che avevano vissuto insieme per circa tre anni. Gruppi che gesticolano fra loro in vari modi ma tutti nella composizione quasi a sforzarsi a condurre   l'attenzione del visitatore sull'attore principale, cioè Cristo, al centro del Cosmo.

Leonardo riesce a realizzare come nessuno prima una composizione piramidale che suggerisce, quiete e forza.

 La capacita della figura di Cristo di parlare con i gesti come tutto il dipinto, apre le braccia allungando le mani: quella destra verso il bicchiere di vino, quella sinistra che mostra il pane, una figura quella di Cristo isolata posta al centro, un isolamento dignitoso da vero Re, la rappresentazione di un uomo consapevole di andare incontro alla morte accettandola   liberamente, senza aureola come di solito si conviene ai Santi, ma circondato dalla nobile architettura della sala.

 Inizialmente abbiamo detto che nel refettorio ci sono due dipinti l’Ultima Cena di Leonardo, difronte a questa una Crocifissione dell’artista Milanese Montorfano, si tratta di un enorme affresco firmato e datato 1495 da Donato Montorfano, e costituisce una delle poche opere certe dell'artista, nonché una delle sue ultime, dato che già nel 1497 il pittore risulta ammalato e non più in grado di lavorare.

Probabilmente l’idea di Leonardo era quella di far sì che entrambi i dipinti dovevano far parte di un unico programma artistico-religioso. Che la rappresentazione del Cristo di Leonardo derivasse da 3 fonti risulta molta chiara come scrive Timothy Verdon illustre storico d’arte cristiana, sacerdote americano, La prima è l'immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze.

La seconda è l'immagine del legislatore dell'arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti,  la pala d'altare dell' Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell'ordine domenicano a Firenze, infatti qui Cristo con la destra affida a San Tommaso d'Aquino il libro della teologia, con la sinistra offre le chiavi del regno celeste a san Pietro.

Mentre la terza permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due.

La posa di Cristo con le braccia estese e la testa inclinata palese segno di tristezza o di morte corrisponde perfettamente a quelle delle immagini, dell'Uomo dei dolori, dove appunto si metteva in evidenza il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe.

Timothy Verdon afferma che l’intenzione di Leonardo era quella di fare della sala del refettorio un unico programma una compartecipazione dei 2 dipinti , il visitatore su una delle due pareti vedeva, nell'Ultima Cena, l'impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue "per la remissione dei peccati", e sulla parete opposta vedeva nella Crocifissione l'adempimento dell'impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce. Il fatto straordinario è questo che se Gesù dipinto da Leonardo alzasse lo sguardo, non vedrebbe altro che la grande croce del giorno seguente.

                                                                             Architetto  Franco  

 


La Bibbia non riporta la data di nascita di Gesù.

Anche se non specifica la data di nascita, la Bibbia fornisce due indicazioni che ci porta a concludere che la data non fosse il 25 dicembre.

1. I pastori “dimoravano all’aperto e di notte facevano la guardia ai loro greggi ”(Luca 2:8). Nel libro “La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù” si legge che il gregge viveva all’aria aperta per un periedo molto lungo cioè dalla “settimana prima della Pasqua quindi dalla fine di marzo fino alla metà di novembre.

2. Pochissimo prima della nascita di Gesù, con decreto di Cesare Augusto si ordinò che tutti glia abitanti della terra si dovevano registrare. Ogni cittadino pertanto doveva andare nella città di nascita e registrarsi questo il più delle volte costringeva a fare lunghi viaggi di molto giorni (Luca 2:1-3). Questo decreto, probabilmente emanato per motivi tributari e militari militare, sarebbe già di per se impopolare in qualsiasi periodo dell’anno, è improbabile che Augusto costringesse i suoi sudditi ad effettuare un lungo viaggio nel freddo dell’inverno.

Gesù come molti studiosi affermano non nasce insomma nell’anno zero, ma alcuni anni prima, punto sul quale concorda ormai la maggioranza degli studiosi.

Sulla questione della nascita di Gesù si è soffermato a lungo, elaborando un percorso di studi articolato e ragionevolmente condivisibile, lo storico italiano Giulio Firpo nel suo libro dal titolo “il problema cronologico della nascita di Gesù”. Il noto docente universitario, dopo un confronto – scontro tra fonti evangeliche, bibliche, extra bibliche, storiche e mitologiche arriva alla conclusione, oggi largamente accettata, che Gesù di Nazaret possa essere nato fra il 6 e il 7 avanti Cristo. Gesù avviò la sua predicazione circa due tre anni prima della sua morte.

  Gia anziano proprio così perché aveva superato i 30 anni di età. Gli anziani nell’ebraismo del tempo erano i maggiori di 30 anni. Gesù infatti aveva superato i 30 anni quando cominciò ad essere chiamato Rabbì (maestro).

  Possiamo comunque tentare di determinare la sua nascita contando a ritroso dalla data della sua morte.

 La morte avvenne probabilmente il 14° giorno del mese primaverile di nisan, precisamente il giorno di Pasqua dell’anno 33 (Giovanni 19:14-16).

Gesù aveva circa 30 anni quando iniziò il suo ministero, che durò tre anni e mezzo, per cui doveva essere nato agli inizi dell’autunno del 2 a.E.V. (ovvero a.C.) (Luca 3:23).

Da precisare che la Pasqua cadde di sabato negli anni 30 e 33, del mese di Aprile circa 8.

Gesù mori, quindi, nell’anno 33 dopo Cristo.

Possiamo comunque tentare di determinare la sua nascita contando a ritroso dalla data della sua morte.

La morte avvenne il 14° giorno del mese primaverile di nisan, precisamente il giorno di Pasqua dell’anno 33 (Giovanni 19:14-16). Gesù aveva circa 30 anni quando iniziò il suo ministero, che durò tre anni e mezzo, per cui doveva essere nato agli inizi dell’autunno del 2 a.E.V. (ovvero a.C.) (Luca 3:23).

Comunque stabilire la data di nascita di Gesù rimane una cosa molto difficile. Per correttezza ricordiamo Anche Dionigi il Piccolo, (monaco originario della Scizia, che visse a Roma tra la fine del V e l'inizio del VI secolo. Volle essere chiamato "il Piccolo" in segno di umiltà verso San Dionigi l'Areopagita e San Dionigi di Alessandria.

È famoso per avere calcolato la data di nascita di Gesù, collocandola dell'anno 753 dalla fondazione di Roma, e per avere introdotto l'uso di contare gli anni a partire da tale data (anno Domini)) nei suoi calcoli per stabilire l'anno di inizio dell'era cristiana, abbia probabilmente commesso un errore (forse di circa 7 anni, forse di 4 o 5).

 Secondo questi calcoli Gesù potrebbe dunque essere nato nell'anno 747 dalla fondazione di Roma, ovvero nel 7 avanti Cristo (ma forse nel 4 o 5 a.C., o forse, come sostenuto dallo  storico Giorgio Fedalto, che rivaluta i calcoli di Dionigi, poco prima dell'inizio dell'anno 1).

 La data esatta però non è nota: infatti la Chiesa festeggia, fin dal IV secolo, la Natività il 25 dicembre, ma solo per sostituire in questa data i festeggiamenti pagani al Sole, nei giorni in cui, passato il solstizio d'inverno, il tempo di luce di ogni giorno inizia ad allungarsi.

Per concludere dobbiamo dire che non solo sulla data di nascita ci sono molte incertezze, ma anche sulla data di morte, su questa le due date più accreditate sono quelle del 7 aprile 30 e del 3 aprile 33.

Franco e Antonio Dima 


Solo un Vangelo ne parla, quello di Matteo, lo stesso non parla   che gli animali da soma fossero cammelli, nemmeno che fossero re, non si dice che li guidava una cometa, non esiste nemmeno traccia dei loro nomi   Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, non si dice che fossero 3 e   che uno dei tre fosse di pelle nera. Nell’antichità greca si definivano «magi» alcuni saggi della Persia, esperti in astronomia questi   non erano soltanto scienziati ma anche un po’ sacerdoti, erano persone che sapevano interpretare determinati «segni» che vedevano nel cielo, come profezie forse per questo erano molto ascoltati dal popolo, che chiedeva loro di prevedere il futuro e tanto altre cose. Matteo li chiama solo “magi” e non Re Magi. Nel   nostro alfabeto “magoi” plurale di (magos).  Matteo   specifica soltanto che i magi venivano dall’oriente, ma si intuisce che   dovevano essere dei personaggi   importanti poiché   viaggiavano con un seguito notevole, tanto che il loro ingresso in   Gerusalemme, provocò molto trambusto capace da attirare l’attenzione di Erode. Il termine Magos era utilizzato dai greci anche per definire i sacerdoti dediti al culto di Zoroastro provenienti dall’Impero Persiano. Mentre nel Vangelo dell’infanzia Armeno vi è la descrizione più dettagliata dei Magi: 

“Quando l’angelo aveva portato la buona novella a Maria era il 15 di Nisān, cioè il 6 aprile, un mercoledì, alla terza ora. Subito un angelo del signore si recò nel paese dei persiani, per avvertire i re Magi che andassero ad adorare il neonato. E costoro, guidati da una stella per nove mesi, giunsero a destinazione nel momento in cui la vergine diveniva madre addirittura si narra per non raccontare tutta la storia del regno persiano potentissimo ecc, che i re magi erano tre fratelli: il primo Melkon, regnava sui persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli arabi. Essendosi uniti insieme per ordine di Dio, arrivarono nel momento in cui la vergine diveniva madre”. Come si evince da questo passo, i Magi sono chiamati per nome, Gaspare re dell’Arabia, Melkon (Melchiorre) re della Persia e Baldassarre re dell’India. Confrontando il Vangelo di Matteo e quello successivo dell’infanzia Armeno si   notano alcune discordanze, prima fra tutte il numero e la provenienza dei magi, Matteo parla soltanto di “alcuni Magi giunti da oriente a Gerusalemme”. La versione del Vangelo dell’infanzia Armeno ebbe la meglio perché legittimato dal salmo 72 della Bibbia che profetizza la venuta del Messia:

“A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici.

I re di Tarsis e delle isole portino tributi;

I re di Saba e di Seba offrano doni.

Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti.

Perché egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto.

Da questo salmo si capisce   che i luoghi di provenienza dei “re” sono diversi da quelli citati dal Vangelo Armeno; molto probabilmente i luoghi citati nella Bibbia al tempo della scrittura dei Vangeli o erano conosciuti con altri nome o non esistevano del tutto.

Valore simbolico ed esoterico dei 3 doni:

1)     l’oro simboleggia l’amore, la conoscenza, la sapienza (l’oro dei filosofi o alchimisti) è infine il colore dell’ultimo grado dell’ascesa alchemica;

2)    l’incenso un’essenza che nei processi alchemici serve a purificare ed è tutt’ora usato nelle funzioni liturgiche cattoliche;

3)   la mirra è una sostanza resinosa utilizzata dagli egizi nei processi dell’imbalsamazione e rappresenta l’immortalità.

I magi altro non erano che  dei sacerdoti, dei Medi, avi degli attuali Curdi, un popolo che nel VI secolo a. C. fu sottomesso dai Persiani. Il greco Erodoto dice che interpretavano i sogni e studiavano gli astri. Probabilmente la storia dei re Magi è una leggenda che nasce molto lontano, in terre esotiche e ricche di antiche tradizioni, ispirata all'oracolo di Balaam, identificato con Zoroastro, che aveva annunciato che un astro sarebbe spuntato da Giacobbe e uno scettro da israele. Tutte le notizie che abbiamo sui Magi ci vengono dai Vangeli Apocrifi e da ricostruzioni e ragionamenti postumi. Dal Vangelo di Matteo abbiamo solo riferimenti ai tre doni, l'oro, l'incenso e la mirra; il numero tre ha una forte valenza simbolica, per alcuni indicherebbe le tre razze umane, discendenti dai   tre figli di Noè Sem, Cam e Lafet. La religione cristiana attribuisce ai magi i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma anche questo non e vero o meglio  non tutte le fonti sono concordi. Nel complesso monastico di Kellia, in Egitto, sono stati rinvenuti i nomi di Gaspar, Melechior e Bathesalsa. Melchiorre sarebbe il più anziano e il suo nome stesso deriverebbe da Melech, che significa Re. Baldassarre deriverebbe da Balthazar, mitico re babilonese, quasi a suggerire la sua regione di provenienza. Gasparre, per i greci Galgalath, significa signore di Saba. Un accenno a questi mitici re lo troviamo anche in Marco Polo:"...in Persia è la città che è chiamata Saba da la quale partirono tre re che andaron ad adorare Dio quando nacque..."  Si dice che i tre magi giunsero a Betlemme 13 giorni dopo la nascita del Cristo. Ancora oggi il culto del magi non è dimenticato, la leggenda narra che i resti mortali dei Re Magi furono recuperati in India da Sant'Elena e poi portati a Costantinopoli.  Sconosciuta  è la sorte dei re Magi dopo la loro morte.

Si dice che i corpi dei Magi sono custoditi  nella Chiesa di Sant'Eustorgio a Milano da Sewa come si evince dalla iscrizione di antichissima data, sul lato sinistro (guardando la facciata della chiesa), che dice: "Basilica Eustorgiana  titulo Regibus Magis” che attesterebbe la presenza dei corpi dei Re Magi.  Inoltre, la chiesa ambrosiana, nel calendario e nei libri liturgici, di prima del X secolo, viene chiamata Basilica dei Re.

Nel 1164 durante l'assedio di Federico Barbarossa, i resti dei Re Magi furono trafugati e trasportati a Colonia, dove venne costruita una bellissima Basilica per contenerli e dove ora riposano. Solo il cardinal Ferrari, agli inizi del secolo scorso, riuscì ad ottenere parte delle ossa ora collocate in un prezioso tabernacolo sopra l'altare dei Magi.  Si racconta che i tre Magi si incontrarono per celebrare il Natale a Sewa, paese della Turchia più di mezzo secolo dopo aver seguito la stella di Betlemme che li condusse al luogo della nascita di Cristo. Poi ai primi di gennaio morirono, tutti centenari.  

Marco Polo (1254-1324) probabilmente ebbe una traccia migliore dei Magi. Durante il suo soggiorno a Saveh, nel sud ovest di Teheran, scrisse di avere visto i loro sepolcri in edifici diversi. Secondo la leggenda, i tre venivano da Saveh, Hawah e Kashan. La leggenda   inoltre colloca la morte dei Tre Magi ai primi di gennaio perché era il sei di questo mese che la chiesa occidentale celebrava la sua visita a Cristo. La festa dell’Epifania, una delle festività più antiche della Cristianità.  Nella Chiesa Orientale l’Epifania ricorda non solo la visita dei magi ma anche il battesimo di Cristo e la festa delle nozze di Cana, quando Cristo fece il suo primo miracolo cambiando l’acqua in vino. A guidare i Magi verso Betlemme potrebbe essere stato un fenomeno celeste, ossia una doppia eclisse di Giove.

 

Che questo fenomeno sia avvenuto è confermato   da una moneta in uso ad Antiochia, capitale della provincia romana della Siria. Su  una  faccia della moneta è ritratto il busto di Giove e sull’altra  l’ariete, rivolto verso una stella. Fenomeno che avrebbe potuto sollecitare i Magi ad incamminarsi sulla giusta via. Ecco che i magi assumono significati diversi talvolta rappresentano   i volti delle tre età dell’uomo, il giovane, l’adulto, l’anziano, così ad esempio in Giorgione. Oppure assumono le sembianze di tre re provenienti dai tre continenti allora conosciuti: l’Africa (uno di loro spesso è dipinto come nero di carnagione, l’Asia, l’Europa. Ecco perché con grande sapienza i presepi della tradizione italiana, in particolare quello napoletano, aggiungono figure di ogni luogo e tempo.

 

Franco e Antonio Dima


SIMONETTA VESPUCCI

Se qualcuno mi chiede quale donna incarna la bellezza nel vero senso della parola,  rispondo senza esitazione Simonetta Vespucci. Simonetta Vespucci  nacque a Genova, secondo alcune fonti a Porto Venere da una famiglia nobile, entrambi i genitori erano Genovesi  Gaspare Cattaneo della Volta e Cattochia Spinola.

Fu data in sposa all’età di 16 anni una ragazzina diremmo oggi ma all’epoca  era  l’età giusta per sposarsi.Fu data in sposa al potente banchiere Marco Vespucci (cugino del più famoso Amerigo, colui che battezzò l'America con il suo nome) la cui famiglia era assai legata alla famiglia Medici di Firenze. Una volta sposati si stabilirono   proprio a Firenze. Era una ragazza molto bella tanto che la sua bellezza non passò inosservata  alla corte dei Medici, infatti Giuliano lo scapolo della famiglia Medici, finì per innamorarsene perdutamente, il poeta più grande del 400 Agnolo, nella sua composizione “Stanze per la giostra”, narra che nel 1475 fu indetto un torneo cavalleresco in Santa Croce e come premio in palio fu  messo un ritratto di Simonetta Vespucci dipinto da Botticelli, (Botticelli e' stato uno tra i piu' grandi pittori del Rinascimento  italiano, nato a Firenze nel Marzo de 1445  nella zona di Via del Porcellana e morto sempre a Firenze nel 1510.

Fece apprendistato nella bottega di Filippo Lippi con il quale lavorò a Prato negli affreschi della cappella maggiore del Duomo. Quando Filippo Lippi si spostò' a Spoleto il Botticelli  frequentò' le botteghe di Antonio del Pollaiolo e e di Andrea del Verrocchio). il torneo quello fu vinto proprio da Giuliano de Medici.

Ritornando alla Vespucci era così bella che ad innamorarsi perdutamente non fu solo  Giuliano ma si innamora anche lo stesso  Botticelli tanto da volerla come sua modella, da sottolineare che molti altri pittori furono folgorati della sua bellezza  ed  ognuno la reclamava come modella per immortalarla nelle proprie   opere fra questi il GhirlandaioPiero di Cosimo, il Verrocchio, ma solo uno  fra tutti ci riuscì, fu il  Botticelli. Si  racconta che il Botticelli  fece trapelare  un legame affettivo, fra lui e Simonetta probabilmente una leggenda (priva di ogni fondamento) si dice anche che il pittore  avrebbe chiesto di essere sepolto accanto a Simonetta nella chiesa di Ognissanti, caso strano i due furono effettivamente sepolti in questa chiesa, ma solo per una pura coincidenza, le tombe di famiglia di entrambi si trovavano nella stessa chiesa (i Vespucci erano titolari di una cappella, mentre Botticelli fu sepolto nel cimitero di Ognissanti).

Una cosa è certa che i due si conoscevano infatti nel 1464 il padre di Botticelli, Mariano Filipepi (infatti ebbene ricordare che Botticelli, si chiamava Alessandro Filipepi), aveva acquistato una casa in via Nuova, limitrofa all’abitazioni della famiglia Vespucci, nel quartiere di Borgo Ognissanti.

In questa casa dimorò anche Sandro, almeno dal 1470 e fino alla fine dei suoi giorni.

Tra i Filipepi e i Vespucci sicuramente c’erano buoni rapporti di vicinato è questo è testimoniato dal fatto che i Vespucci  commissionarono diverse opere al pittore come  il Sant’Agostino nello studio della chiesa di Ognissanti (i Vespucci, oltre a essere titolari di una cappella nella chiesa, ne erano stati anche tra i principali finanziatori). 

Ritornando alla Vespucci era una donna dalle  fattezze delicate e gentili, capelli color biondo oro  lunghi e lucenti come si evince in alcune opere come  la Nascita di Venere e la Primavera.Nel primo dipinto incarna il volto della dea greca della bellezza, mentre nel secondo è Flora, l'allegoria della stagione primaverile.

Anche Piero di Cosimo comunque  fu un appassionato estimatore, dedicandole il ritratto del Museo Condé.

Simonetta Vespucci  è effigiata a mezza figura di profilo, voltata verso sinistra e sullo sfondo di un paesaggio aperto, arido a sinistra e rigoglioso a destra.

Una nube scura esalta per contrasto il profilo purissimo del volto, dalla carnagione chiarissima. 

Tradizionalmente viene identificato come un ritratto nelle vesti di Cleopatra, per il seno scoperto e l'aspide attorcigliato al collo con il quale essa morì.

Studi più recenti hanno però anche ipotizzato che la donna simboleggi Proserpina, col serpente che simboleggerebbe la speranza di resurrezione in chiave pagana. Stupisce la purezza dei lineamenti e la ricchezza dell'acconciatura, elaborata con treccine, nastri e perline.

La fronte molto alta,  secondo la moda del tempo che prevedeva la rasatura dell'attaccatura dei capelli. Il busto, secondo una tipologia quattrocentesca, è leggermente ruotato verso lo spettatore, in modo da favorire la visuale, ed è avvolto da un panno riccamente ricamato e intarsiato. Sul parapetto dipinto si legge un'iscrizione che imita lettere intagliate, uno stratagemma già usato nell'arte fiamminga. 

Simonetta muore  il 26 aprile 1476 all’età di 23 anni per tisi, diventa ben presto  oggetto di  venerazione,  infatti  fiorentini e non vedevano una sorta personificazione del concetto di bellezza,  lo   stesso Lorenzo il Magnifico scrisse, in sua memoria, quattro sonetti, il più famoso dei quali recita:

 

 “O chiara stella che co’ raggi tuoi

 Togli alle tue vicine stelle il lume,

Perché splendi assai più del tuo costume?

Perché con Febo ancor contender vuoi?

Forse e begli occhi, quali ha tolto a noi

Morte crudel, che omai troppo presume,

Accolti hai in te: adorna del lor nume,

El suo bel carro a Febo chieder puoi.

 O questo o nuova stella che tu sia,

 Che di splendor novello adorni el cielo,

Chiamata esaudi, nume, e voti nostri:

 Leva dello splendor tuo tanto via,

Che agli occhi, c’han d’etterno pianto zelo,

Senz’offension lieta ti mostri”.

 

 Bernardo Pulci altro poeta , in una sua lirica  In morte di Simonetta, la descrive come “delizia e zelo” dei regni di Venere.  Angelo Poliziano la immaginò come  ninfa, Poliziano descrive l’apparizione della giovane in questi termini:

 

“Candida è ella, e candida la vesta

 Ma pur di rose e fior dipinta e d’erba:

 Lo inanellato crin dell’aurea testa

 Scende in la fronte umilmente superba.

Ridegli attorno tutta la foresta,

 E quanto può sue cure disacerba. 

Nell’atto regalmente è mansueta;

 E pur col ciglio le tempeste acqueta”.

 

Una donna molto coraggiosa ed emancipata per l’epoca, se si pensa che nel 400 posare nuda per una donna di alto rango era molto sconveniente, anche se  non è stato mai trovato alcun documento che provi che Simonetta abbia posato per Botticelli e per di più nuda,  invece diventa consuetudine posare nuda per un pittore nel secolo successivo nel 500.

Due sono i dipinti più famosi del Botticelli custoditi ora al Museo degli  Uffizi di Firenze: la  Nascita di Venere e la allegoria della Primavera.L’importanza che si coglie in entrambi i dipinti , la ricerca di una nuova visione prospettica delle figure nello spazio.

Altro dipinto molto bello fu realizzato da Piero di Cosimo dipinse una Cleopatra con le sembianze di Simonetta Cattaneo, con un aspide attorno al collo: era certamente un inquietante ricordo della fine prematura, ma il serpente è anche un simbolo erotico e tutto il quadro, del resto, ha una doppia chiave di lettura in bilico tra il rigoglio della vita e la morte in agguato.

Per chiudere la bellissima  Simonetta, la donna che fece impazzire Firenze e non solo  era già stata trasformata in un mito in vita rafforzandosi dopo la morte.

Non a caso per fare da musa ispiratrice  impersonificare la Venere celeste simbolo di purezza, semplicità' e bellezza Botticelli, sceglie una sola donna " La Sans Par", la senza paragoni, Simonetta Vespucci. 

 “Muore giovane chi è caro agli dei”. Una citazione del commediografo greco Menandro sicuramente nota negli ambienti raffinati dell’Umanesimo fiorentino del circolo più vicino a Lorenzo il Magnifico. Una data. 26 aprile 1476.


Come tutti sappiamo la storia dell’arte ci ha tramandato l’aspetto di Cristo   come un giovane dai capelli lunghi e barba folta, anche se i vangeli sull’ aspetto di Cristo non ci tramandano nulla o meglio non troviamo nessuna descrizione sul come era fisicamente.

Ultimamente per caso leggevo che in un archivio privato è stata trovata, una stampa incollata su cartoncino, risalente   al 1920 circa, dalla didascalia in calce, si legge che si tratta   del reale volto di Gesù riprodotto dal volto  fatto incidere dall'imperatore Tiberio su un smeraldo, di proprietà del tesoro imperiale di Costantinopoli prima, non si sa come caduto successivamente in mano ai turchi nel 1453 e dal sultano Bajazet II donato a papa Innocenzo VIII.

A questo ritratto iconografico fa riscontro la lettera di Plinio Lentulo, proconsole della Giudea.

 La lettera circa l’aspetto di Cristo cita:

“A Tiberio Cesare, Salute. E' apparso da queste parti un uomo dotato di eccezionale potenza, e lo chiamano il grande Profeta.

I suoi discepoli lo appellano Figlio di Dio.

Il suo nome è Gesù.

Ogni giorno si sentono cose prodigiose di questo Cristo, che risuscita i morti e guarisce ogni infermità.

Egli è di aspetto maestoso, tanto che coloro i quali lo vedono, lo amano e lo temono allo stesso tempo.

Il suo viso roseo,   barba divisa nel mezzo, è di una bellezza incomparabile, occhi azzurri e brillanti,  cappelli colore delle noci mature, lisci scendono fino alle orecchie, dalle orecchie in giù sono increspati e ricci molto più chiari e lucenti ondulati sulle spalle, nel mezzo una riga.

Cammina scalzo…., nessuno lo vide mai ridere, ma molti lo videro piangere.

Un viso senza rughe ne macchie abbellito da un moderato rossore.

La statura del corpo alta e dritta, mani e braccia belli alla vista.

Lettera questa trovata da un certo Giacomo Colonna intorno al 1421, in un documento che proveniva da Costantinopoli risalente al 300 d.c. circa. Alcuni studiosi affermano invece che trattasi di un documento risalente al Medioevo un falso privo di qualsiasi interesse.

Gesù viene anche identificato come il Nazareno probabilmente   per il periodo passato nella città di Nazaret per alcuni, altri  invece pensano che il Nazareno derivi da Nazireo nel senso che Cristo avrebbe aderito al “nazierato”, il nazierato altro non era che un voto temporaneo di consacrazione a Dio.

Chi aderiva a questo voto non doveva bere vino o altri tipi di liquori e non doveva tagliare i capelli. Probabilmente si arriva a questa conclusione per il semplice fatto che dai 12 anni fino all’età di 30 circa non si sa nulla su Cristo non si sa in quale luogo si trova ne cosa fa quindi si pensa che aderisce al “nazierato” da questo il nome Nazareno.

(Anche se c’è da dire che lui stesso provvide miracolosamente al vino durante la festa nuziale a Cana di Galilea. (Giovanni 2:1-11))

Ritornando a parlare   dei lineamenti di Gesù e del colore della sua pelle   da appassionato quale sono della figura di Cristo sicuramente erano semitici, ereditati dalla madre Maria, che era ebrea, come ebrei erano  gli antenati di Maria, sicuramente un viso simile agli ebrei attuali.

  Appunti   di   Franco e Antonio DIMA


Giuda altro non era che   uno dei discepoli che Gesù aveva scelto con cura, tanto da nominarlo tesoriere del gruppo degli apostoli.

Ma Giuda   era anche l’uomo che avrebbe tradito nel giardino di Ghetsemani Gesù con un bacio di morte. La scena sicuramente fu brutta anzi brutale, si dice che  alcuni  lo afferravano per i vestimenti, altri per i capelli altri colpirono con pugni rabbiosi ecce cc tutta questa brutalità è  confermato dalle Scritture: “Grossi tori mi hanno circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato; aprono la loro gola contro di me, come un leone rapace e ruggente.” ( Salmi 22:12-13).c

Ma la domanda nasce spontanea “ veramente siamo convinti che per prendere Gesù fosse necessario il tradimento di Giuda”?Penso proprio di no.

Gesù aveva predicato nelle sinagoghe, nelle strade e nelle piazze, ragion per cui il suo viso era noto a tutti,  facilmente riconoscibile. Le Scritture dicono che il popolo lo seguiva anche nei luoghi dove si ritirava a pregare. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare e voi non mi avete preso” (Matteo 26.55). In altre parole: la Mia faccia vi è familiare. Giuda non era necessario per il supplizio o la crocifissione di Gesù. Infatti non era da quelle parti in nessuno dei due episodi. Mentre Cristo andava alla croce, Giuda era già morto, avendo commesso suicidio entro ventiquattro ore dal suo terribile atto.

La domanda penso, anche questa volta nasce spontanea  "Perché Giuda tradì Gesù?"

Probabilmente anche se Giuda   era stato scelto per essere uno dei Dodici (Giovanni 6:64), tutte le Scritture sembrano affermare il fatto che Giuda non aveva mai creduto che Gesù fosse Dio, che   non era   il Messia.

Infatti a differenza dagli altri discepoli che invece chiamavano Gesù “Signore,” Giuda non usò mai questa parola lui lo chiamava invece “Rabbi” indicando Gesù come nient’altro che un maestro.

Altra probabilità  che Giuda, e non era sicuramente l’unico, credeva che il Messia avrebbe capovolto l’impero romano per poi regnare sulla nazione d’Israele, sperando di beneficiare dall’associarsi con Lui.

  Ma c’è da dire che al momento del tradimento di Giuda, Gesù aveva reso palese che Egli aveva pianificato di morire, e non di dare vita alla ribellione contro Roma. Giuda   può aver fatto questo semplice ragionamento identico a quello dei Farisei, poiché Gesù non avrebbe detronizzato i romani, egli non era il figlio di Dio.

Ma esiste un   manoscritto   decifrato che riabilita  la figura di Giuda, in copto risalente al  300 dopo Cristo.

Il Vangelo secondo Giuda ben descritto in un articolo di ALBERTO FLORES D'ARCAIS

 "QUI si narra il segreto della rivelazione che Gesù fece parlando con Giuda Iscariota...". Così inizia la prima pagina di un  manoscritto in papiro che ci son voluti cinque lunghissimi anni di lavoro ad una équipe di esperti linguisti, papirologi e studiosi di storia della religione, per  riuscire  a decifrare il testo e a verificarne l'autenticità e il significato religioso.

Scritto su papiro e legato da un laccio di pelle il codice è stato redatto in copto - la lingua in uso allora in Egitto , intorno al 300 dopo Cristo; trattasi di un ritrovamento  avvenuto negli anni  Settanta del secolo scorso  nel deserto presso El Minya in Egitto.

In questo documento   non si fa alcun cenno alla crocifissione nè alla resurrezione. Il passaggio più significativo del documento e quando Gesù dice a Giuda: "... Tu supererai tutti loro. Perché tu farai sì che venga sacrificato l'uomo entro cui io sono".

  Nel senso che Giuda aiuta   Gesù a liberarsi del suo corpo la sua entità spirituale, la sua essenza divina. 

"Allontanati dagli altri, a te rivelerò i misteri del Regno. Un Regno che raggiungerai,ma con molta sofferenza. Giuda pertanto   non solo non è "il Traditore" ma  addirittura il mezzo attraverso cui Gesù raggiunge il suo scopo.

  Al papiro manca la parte finale e il testo si interrompe all'improvviso: "Essi (coloro che erano venuti ad arrestarlo) avvicinarono Giuda e gli dissero, "Cosa fai qui? Sei un discepolo di Gesù?". Giuda diede loro la risposta che volevano, ricevette da loro  del denaro e glielo consegnò". 

Le 66 pagine del manoscritto oltre a contenere il Vangelo di Giuda, contengono  un  testo intitolato "Giacomo", una lettera di Pietro a Filippo

La morte di Giuda e la sua tempistica

Quando accadde la morte di Giuda?  Alcuni collocano la sua morte al tempo della crocifissione e definitivamente prima della resurrezione. Ma 1 Corinzi 15:3-5 parla di una apparizione ai dodici:

1Corinzi15:3-5

“Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; che apparve a Cefa, poi ai dodici.”

Questo significa che la morte di Giuda avvenne dopo la crocifissione altrimenti   nella Parola di Dio dovrebbe essere scritto “undici” invece di “dodici”. Sicuramente quando si parla dei 12 si parla dei dodici apostoli compreso Giuda. Ma chi erano i 12 discepoli ?

Luca 6 per esempio ci dice:

Luca6:13-16

“Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, e suo fratello Andrea; Giacomo e Giovanni; Filippo e Bartolomeo; Matteo e Tommaso; Giacomo, figlio d'Alfeo, e Simone, chiamato Zelota; Giuda, figlio di Giacomo, e Giuda Iscariota, che divenne traditore.”

La composizione del gruppo dei dodici discepoli includeva anche Giuda Iscariota.

Ma allora ci viene da chiedere ma Giuda era presente alla resurrezione di Gesù da alcuni eventi pare di si.

“l'apparizione”  di Gesù “il primo giorno della settimana”

Questa è descritta in tre dei quattro vangeli.

La testimonianza di Giovanni

Giovanni20:19

“La sera di quello stesso giorno, che era il primo della settimana, mentre le porte del luogo in cui si trovavano i discepoli erano chiuse per timore dei Giudei, Gesù venne e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!»”

In questo passaggio non viene detto quanti discepoli erano presenti ma nel , verso 24 dello stesso capitolo ci dice chi non era presente:

Giovanni20:24

“Ora Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù.”

La testimonianza di Luca

Dell'apparizione dopo la resurrezione “La sera di quello stesso giorno, che era il primo della settimana” data in verso 24.

Verso 1 dice   che il giorno era “il primo della settimana”.

Verso 13 ci dice che due dei discepoli “se ne andavano in quello stesso giorno (cioè il primo giorno della settimana) in  un villaggio di nome Emmaus, ad una distanza di 60 stadi da Gerusalemme ”. Quando arrivano ad Emmaus era all'imbrunire “si fa sera” come dice verso 29 . Dopo aver riconosciuto Gesù, questi due discepoli “E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli   undici e quelli che erano con loro.

Luca 24:33-36

“E, alzatisi [i due discepoli che sono appena arrivati ad Emmaus] in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli  undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone». Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane. Ora, mentre essi parlavano di queste cose, Gesù stesso comparve in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»”

Apparizione questa che avviene la sera del primo giorno della settimana, è quindi la stessa sera di cui Giovanni parla. I fatti raccontati da Giovanni e Luca sono identici.

Comunque si capisce una cosa mentre Giovanni ci dice che Tommaso non era là,   Luca ci dice che erano in undici quindi giustamente fa dedurre che giuda era presente quindi ancora vivo, questo vuol dire che Giuda era presente a questa apparizione e vide il Cristo risorto.

La testimonianza di Marco

Marco 16:14

“Poi apparve agli undici mentre erano a tavola e li rimproverò della loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che l’avevano visto risuscitato.”

Passaggio che di nuovo si riferisce all'apparizione della sera del primo giorno della settimana parla degli undici. Sapendo che chi era assente era Tommaso, è chiaro quindi che Giuda era là presente.

L'apparizione di Gesù ai dodici

L'apparenza ai dodici è descritta in uno del vangelo, chiamato il vangelo di Giovanni.

Giovanni20:24

“Ora Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù.”

Questo “loro” è riferito ai discepoli che erano presenti in cui Tommaso era assente. Quindi Secondo la documentazione del vangelo, noi sappiamo che tranne   Tommaso tutti gli altri undici erano presenti.

Giovanni20:25-26

“Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò». Otto giorni dopo i suoi discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte chiuse, e si presentò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»”

Chi erano i discepoli presenti a questa apparizione? Essi erano gli undici più Tommaso, cioè “i dodici”. Evidentemente questa è l'apparizione di cui ci parla 1 Corinzi.

La morte di Giuda come descritta da Matteo 27:3-5

In Matteo 27 dove, cominciando da verso 1, leggiamo:

Matteo 27:1-8,11

“Poi, venuta la mattina, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. E, legatolo, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato, il governatore. Allora Giuda, che lo aveva tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò i trenta sicli d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, consegnandovi sangue innocente». Ma essi dissero: «Che c’importa? Pensaci tu». Ed egli, buttati i sicli nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. Ma i capi dei sacerdoti, presi quei sicli, dissero: «Non è lecito metterli nel tesoro delle offerte, perché sono prezzo di sangue». E, tenuto consiglio, comprarono con quel denaro il campo del vasaio perché servisse per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo, fino ad oggi, è stato chiamato «Campo di sangue». Gesù comparve davanti al governatore e il governatore lo interrogò, dicendo.......”

Il topico maggiore di Matteo 27 non è diretto a Giuda e la sua storia ma a Gesù Cristo e la sua passione. I versi 1 e 2 ci dicono che Giuda fu consegnato al governatore. Poi il verso 3 apre una parentesi per dirci quello che successe a Giuda. Questa parentesi continua fino al verso 5. Con questo noi sappiamo che Giuda quando vide che Gesù fu condannato, egli si pentì e riportò i trenta pezzi d'argento, sappiamo inoltre che il capo dei sacerdoti e gli anziani non l'accettarono, così egli li buttò nel tempio e se ne andò. Quindi noi sappiamo ciò che accadde a Giuda   cioè primo egli si pentì, dopo egli ritornò per ridare i soldi fino al suicidio. Ma tutto questo non ci è detto quando   accadde ma spiega solo cosa accadde.

Infatti nei versi 6-10: ci dice cosa accadde ai trenta pezzi d'argento. Cioè, ci è detto che i capi sacerdoti presero questi trenta pezzi d'argento e comprarono il campo del vasaio.

Per concludere il racconto di Matteo è focalizzato non quando avvenne la morte di Giuda ma quello che Giuda fece.

Per tutto quando prima descritto si può dire che   Giuda vide il Cristo risorto ed infatti noi sappiamo che egli era vivo almeno dieci giorni

( Giovanni 20:26) dopo la prima apparizione agli undici. Dall'altra parte, Pietro nel discorso che diede nel periodo tra l'ascensione ed il giorno di Pentecoste (Atti 1:15-22) disse che Giuda era morto. Questo vuol dire che il suicidio di Giuda, accadde nel periodo tra otto giorni dopo la resurrezione ed il giorno che Pietro parlò.

 

Franco e Antonio DIMA


UCCISI PER UN'ITALIA MAI FATTA

Ti ricorda qualcosa la data 1860? Scommetto nulla!  Il decennio 1860 / 1870 nemmeno?  

Accadde che i Piemontesi senza nessuna ragione, senza dichiarazione di guerra, senza una giusta causa invasero il regno delle Due Sicilie. 

Sai che i primi deportati furono i meridionali? che i primi campi di sterminio non sono quelli di Auschwitz? ma bensì quelli Piemontesi e Lombardi come la fortezza di Finestrelle, di Milano, di San Marco, di Bologna di Parma ecc.

Sai che centinaia di migliaia di meridionali appartenenti e non all’esercito delle Due Sicilie, che si erano rifiutati di rinnegare il Re Borbone furono deportati e trucidati in campi di sterminio, facendoli morire di fame, di freddo, mentre ad alcuni toccò ben altra sorte, molto più atroce: essere sciolti nella “calce viva”.

Ecco in questi dieci anni furono quasi un milione i meridionali ammazzati, eppure la cosa più triste che nessuno li ricorda.

Sapevi caro studentello che ben 54 paesi vennero rasi al suolo, la prima pulizia etnica del mondo occidentale.

Sicuramente non conosci la Legge Pica, con la quale in sostanza si ordinava alle truppe piemontesi il libero saccheggio, il libero stupro, la libera fucilazione dei meridionali.

Sai che i briganti altro non erano che dei partigiani, gli stessi che noi ricordiamo ed onoriamo per aver fatto la resistenza durante l’ultima guerra.

Mai sentito parlare di Michelina Di Cesare? uccisa il 30 Agosto del 1868 dopo essere stata stuprata.

Di Ninco Nanco luogotenente di Carmine Crocco uccisi, trucidati per la nostra terra. 

In poche parole ai meridionali fu fatto quello che i nazisti fecero agli Ebrei, quello che gli americani fecero ai nativi americani.

Certamente non sai le ricchezze che il regno delle due Sicilie aveva:

443 milioni di Ducati Oro, era questo il contributo delle 2 Sicilie alle casse dell’Italia detenuti nelle Banche di Napoli e Sicilia, contro quello Sabaudo di 27 milioni di lire, quello Lombardo di solo 8 milioni di lire.

Sapevi, sicuramente no, circa la lettera che Garibaldi scrisse nel 1868 ad Adelaide Cairoli dove si legge:

“ Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili”.

Certamente non sai, che nel 1864 l’Italia espropria e vendeva tutti i beni del sud e con il ricavato si rilanciò l’agricoltura della Valle Padana.

Sapevi a proposito dell’invasione Piemontese che in Parlamento a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quella di Tamerlano, di Gengis Khan e Attila, tale fu la ferocia.

Sicuramente non sai, ma spero che questo poche righe ti faranno riflettere che la prima Italia se così si può dire, fu un pezzo di Calabria sul Tirreno, e che per Massimo D’Azeglio i meridionali erano carne che puzzava.

Sappi che il sud fu nazione sin dal 1130 pur sotto diverse dinastie ha sempre mantenuto lo stesso territorio, mentre il Nord fu sempre uno spezzatino di piccoli stati.

Sai che nel regno delle due Sicilie c’era il maggior numero dei medici per abitante, ed il più basso tasso di mortalità infantile invece al Nord si moriva di pellagra (malattia dovuta al mancato assorbimento di vitamina del gruppo B).

Sai che dopo l’annessione sono state fatte chiudere tutte le scuole del Sud e per 15 lunghi anni, per cancellare la storia e la cultura del popolo meridionale.

In ultimo ti consiglio di andare a leggere la storia di Fenestrelle definita la grande muraglia Piemontese, proprio qui inizia e finisce una storia dimenticata del Risorgimento, troppo dimenticata.

Ricordati sempre che per liquidare un popolo si inizia con privarlo della sua memoria, della sua cultura, della sua storia scrivendo altri libri, scrivendo un’altra storia, così che quel popolo inizia lentamente a dimenticare quello che è stato.

In memoria dei meridionali deportati                      Arch. Franco Dima


Parlare di gotico significa collocarci cronologicamente al lontano romanico maturo. Nella prima metà   del XII secolo intorno alla periferia di Parigi nell’Il de France che nasce, per poi diffondersi nel secolo successivo cioè nel XIII nei paesi Bassi, Inghilterra, Germania, mentre in Italia in forma molto più limitata. Il maggiore studioso dello stile gotico fu l’architetto francese Eugene Viollet-le-Duc che definì l'architettura gotica come: ‘Tutto è funzione della struttura; il matroneo, la galleria del triforio, il pinnacolo e il timpano. Viollet-le-Duc  afferma che nell’arte gotica non esiste forma architettonica che sia figlia della libera fantasia’. Un’architettura basata sul gioco sapiente su elementi che sfruttando spinte e controspinte il tutto per raggiungere un’ equilibrio perfetto, un esempio; gli archi non scaricano più sui muri ma su specifici supporti, i pinnacolo servono da pesi per reggere le spinte e così via.  Grazie al sapiente sistema costruttivo si riduce la massa di materiale cioè la pietra che costava non poco, con questo nuovo sistema le pareti divennero molto più sottili tanto da usare grande vetrate capaci di illuminare gli ambienti interni come se non si era mai visto. Nel parlare di gotico c’è da sottolineare che si hanno diversi tipi di gotico come:

Il gotico classico

con il quale si intende quello stile architettonico proprio delle cattedrali francesi del XIII secolo che per il loro stile e forma, presentano un equilibrio fra contenuto formale e spirituale. La principale cattedrale di riferimento è Chartres.

Il gotico radiante

Per alcuni studiosi il gotico radiante è un'evoluzione dello stile gotico classico. L’esempio più antico di cattedrale in stile gotico radiante è forse la cattedrale di    Clermont Ferrend

Gotico inglese

In Inghilterra la scarsità delle cave di pietra, mentre l’abbondanza di legname spinge gli architetti a soluzioni diverse dalla Francia; le cattedrali qui diventano più basse e massicce, i muri portanti  rimangono  massicci per evitare l’uso di contrafforti e archi rampanti mentre le volte sono diventato in legno e non in pietra

Il gotico ornato

Caratteristica di questo è la decorazione floreale ricca, con timpani a fioroni e archi rampanti ricchi di fogliame ecc., con timpani e pinnacoli su cui si elevano le statue.

Il gotico perpendicolare, così definito per l’uso di angoli dritti; si diffonde a partire dal 1330 e caratterizza il gotico inglese fino alla fine del medioevo. Il principio tecnico su cui si basa l'architettura gotica è l'uso sistematico dell'arco a sesto acuto, sia semplice sia formante la crociera.

L'arco acuto risulta dall'intersezione di due archi di cerchio, aventi uguale raggio ma centro diverso; data la maggiore altezza (detta "freccia") rispetto all'arco a pieno centro, ce da dire che l’arco acuto scarica più rapidamente sui lati le forze risultanti dalla divisione della forza di gravità. Questo permette una grande elevazione.

Sappiamo tutti che alla base dell’arte gotica altro non c’è che un’ideale, quello dell’opera perfetta, l’artista mira a creare il bello, il perfetto, il Divino.

Ed ecco che   le forme diventano più snelle, leggere, slangiate verso l’alto, più sinuose e dolci.

Ed è proprio che nel capo religioso che l’architettura gotica la sua massima espressione, l’arco tutto sesto, le strutture robuste, le piccole vetrate vengono sostituite dall’arco a sesto acuto, da le strutture come le guglie slangiate, le vetrate diventano grandi.

Nasce con il gotico l’arco rampante, particolare arco asimentrico che serve a bilanciare il peso delle murature in un gioco di equilibrio di spinte e controspinte. Gotico che comunque con il passare del tempo diventa più ornamentale tanto che alla fine del 1300 fino alla meta del 1400 assume un carattere più ornamentale, vivace cosiddetto gotico fiammeggiante o fiorito. Questo è un altro discorso a noi ci interessa il cosidetto gotico Cistercenze.

Tra le abbazie in Italia Cistercenze da ricordare quella di Fossanova (1135), fu uno dei primi capolavori Cistercenzi in Italia per la purezza delle forme, la geometria molto equilibrata, la sobrietà delle forme, dalla tipica pianta Cistercenze a croce latina con abside rettangolare, navata centrale molto più alta ed illuminata rispetto alle laterali, semicolonne pensili ecc. Con l’architettura cistercense quindi dobbiamo intendere un’architettura di carattere religioso che è stata espressa dall’ordine benedettino ordine questo assai più vecchio, riformato dei cistercensi, infatti i cistercensi altro non sono che dei monaci benedettini, ovvero che basano la propria esistenza sulle regole espresse da San Benedetto. 

Comunque non possiamo parlare di architettura Cistercenze senza nominare San Bernardo di Chiaravalle, questo illustre santo della cristianità costituisce l’elemento di congiunzione tra Cistercenzi e Templari, Cistercenzi che grazie a questo Santo diventano uno degli ordini più ricchi e influenti del Medioevo, mentre per i Templari egli stesso ne raccomandò la costituzione al papa, addirittura per essi ne scrisse le regole di vita e comportamento sul modello benedettino.

Questo grande Santo nasce da una famiglia aristocratica a Digione nel 1090, studia presso i canonici secolari di St Varles a Chatillon Sur Seine, rifiuta di intraprendere la carriera ecclesiastica anche se poi si ritira presso il monastero di Citeaux.

Il suo arrivo in questo monastero diede nuovo slangio e linfa allo stesso anche se 5 anni più tardi insieme ad altri 12 compagni monaci lascia questo monastero per fondare una nuova comunità che egli volle chiamare Valle della luce cioè Chiaravalle. Inizialmente tutti i compagni erano figli della nobiltà dell’epoca ma pian piano a questi si unirono figli di contadini e del popolo.

La vita che questi monaci facevano era una vita semplice, dedicandosi per lo più all’ agricoltura ed all’ allevamento del bestiame. San Bernardo mori a Chiaravalle il 20 agosto del 1153 mentre fu proclamato santo nel 1174.

Ma vediamo più da vicino cosa avvenne in questo periodo, il 21 marzo del 1098 equinozio di primavera festa tra l’altro di San Benedetto ma anche domenica delle Palme ecc. 21 monaci con a capo Roberto di Champagne si diressero ad un ventina di Km  a sud di Digione lasciando il monastero di Molesme per dar vita ad un nuovo insediamento chiamato Cistercium, diventando ben presto una potenza sia dal punto di vista dimensionale per le proprietà che possedevano che per la notevole influenza sull’intera chiesa.

Da un punto di vista architettonico-urbanistico diventa importante analizzare di questo ordine alcuni aspetti che sembrano di minore importanza, ma che invece hanno notevole valenza questi sono: l’allocazione di questi monasteri, l’orientamento, il dimensionamento degli spazi, la rigidità dello stile . Per capire ed analizzare questi elementi bisogna partire con la regula LXII dove palesemente viene espressa la volontà di quest’ordine dove si legge: possibilmente il monastero deve essere costruito in modo da potervi trovare quando e necessario, l’acqua, il mulino, un’orto, inoltre i monaci non devono girovagare fuori dal monastero, questo non recherebbe vantaggio alle loro anime, in altre parole l’ordine Cistercenze mira alla perfezione soprannaturale. Prima si accennava alla allocazione, infatti i monaci sceglievano con molta cura il luogo dove costruire i nuovi conventi di solito cercavano zona paludose o meglio ricche dell’elemento naturale.

Cioè l’acqua. Mentre per l’orientamento erano soliti disporre   le costruzioni verso Nord questo probabilmente per due motivi molto semplici, uno per i venti del maestrale l’altro per fa sì che la luce del giorno potesse illuminare  i diversi elementi  del monastero durante le ore della giornata. Altro elemento importante la rigidità dello stile, infatti lo stile risulta semplice privo di qualsiasi tipo di decoro  poiché  il decoro la bellezza non farebbe altro che distrarre il monaco dalla meditazione e dalla preghiera, decoro sfarzo che per secoli erano stati simbolo della chiesa quando tutto il popolo viveva nella miseria più completa ed ecco che i Cistercenzi si diedero delle regole ben precise e rigide, un’architettura diciamo  minimalista, tanto  povera che lo storico Eschapasse afferma che molti segni che oggi caratterizzano l’architettura cistercenze  in epoca diversa li possiamo trovare nelle ville romane, come il chiostro ed il peristilio simili non solo dal punto di vista architettonico ma soprattutto funzionale. Detto questo per vedere realizzata una struttura dal punto di vista dimensionale enorme bisogna aspettare il 900 cioè il complesso di Cluny questo fu costruito in 3 distinte fasi, una prima fase che si conosce ben poco, quasi nulla, una 2 fase   tra 993 1048 ed una terza di questa si conoscono tutti i particolari evolutivi fra 1077 ed 1086. Ma a cavallo dell’anno 1000   che iniziano a sorgere numerosi monasteri in tutta Europa in Francia, Germania, Inghilterra tutti adottando come modello quello di Cluny tanto da far parlare di stile Cluniacense.

Per analizzare i vari ambienti prendiamo in considerazione la pianta tipica elaborata   Dimier.

Dormitorio (sovrastante la sala capitolare)

Dormitorio Conversi (sovrast. il dispensarium e il refettorio dei conversi)

La grangia

Analizzando la progettazione degli interni spesso si parla di progettazione “ad quadratum”, ovvero trattasi di un   metodo compositivo che si basa sul ricorso a campate regolari, per lo più   a pianta quadrata.

Sia in pianta che nell’elevato vengono rispettati   proporzioni geometriche precise.

Anche gli spazi monastici vengono concepito in una maniera prefissata, la chiesa ha un impianto a tre navate, come detto prima  a croce latina, altra particolarità delle chiese cistercensi (soprattutto le prime) è quello di avere nella zona absidale delle cappelle a pianta quadrata o rettangolare.  Poi ci sono  due zone, una riservata strettamente ai monaci ed una riservata ai conversi, tutti questi spazi sono articolati attorno ad un cortile a pianta quadrata che si chiama chiostro, il quale, oltre ad introdurre all’interno delle architetture uno spazio verde, doveva permette ai monaci di passeggiare e di proseguire la lettura delle sacre scritture senza distrazioni, inoltre permetteva di disimpegnare i vari spazi abitativi dell’abbazia (questo schema generalmente accomuna tutte le abbazie).

Troviamo la sala capitolare (ovvero quella destinata all’incontro) e poi via di seguito gli altri ambienti, generalmente articolati in due piani.

Per l’architetto cistercense è necessario che le strutture e gli spazi siano comprensibili chiaramente, sia nel momento in cui vengono costruiti che nel momento in cui vengono utilizzati, non ci vedono essere distrazioni; addirittura alcuni storici hanno parlato di iconoclastia bernardiana, ovvero la lotta contro le immagini, proprio perché Bernardo aveva respinto l’eccesso di decorazioni di Cluny.

Nell’abbazia di Fontenay possiamo vedere come lo spazio sia coperto da una volta a botte, intercalata da una serie di arcate che danno un ritmo visivo e strutturale nello scarico dei pesi; gli archi non sono a tutto sesto, ma non sono neanche a sesto acuto come saranno nell’architettura gotica; lo spazio è si illuminato però il visitatore si sente avvolto dall’architettura, nel senso che l’architettura in questo caso è massa che lavora per gravità, l’elemento di massa è preminente (non è un baldacchino che fa ombra, come accadrà nell’architettura gotica, i pilastri non sono ancora fascicolari e non sono snelli e slanciati verso l’alto, l’architettura gotica è pensata come un diaframma per la luce). Per quanto riguarda il sistema strutturale complessivo, il sistema sfruttato è quello spingente, ma lo schema riprende un po’ le soluzioni dell’architettura romana, con nella navata centrale una volta a botte continua e ritmata dalle arcate, però abbiamo a contraffortare le spinte della navata abbiamo una serie di altre volte a botte (a sesto acuto), che si sviluppano su assi perpendicolari a quello longitudinale della navata.

L’alzato comprendeva volte a botte ad arco spezzato (longitudinali nel corpo della chiesa e nelle cappelle, trasversali nelle navatelle e nei bracci del transetto) e graduato in altezza secondo una rigida scalatura che privilegia la grande croce tracciata dalla navata, coro e transetti, illuminati direttamente solo dalle testate terminali e, in basso, dalle striature oblique delle luci provenienti dalle finestre delle navatelle. Diversa rispetto alle precedenti architetture monastiche è anche la disposizione degli edifici: in ambito

Benedettino spesso è libera, talvolta condizionata dall’andamento territoriale o dalle preesistenze; mentre i cistercensi disponevano i complessi secondo uno schema ben preciso: intorno al chiostro, un quadrato perfetto affiancato alla chiesa, di solito sul fianco meridionale, si succedevano gli ambienti dove si svolgeva la vita monastica (sacrestia, sala capitolare, parlatorio, cucina, refettorio, dormitori, ecc.).

Sul discorso dei cantieri scuola bisogna parlare del fatto che i Cistercensi hanno contribuito a sviluppare certe competenze nel campo dell’edilizia, proprio perché ogni cantiere aveva una serie di figure così ben organizzate ed una padronanza tale dell’edilizia che questo faceva scuola, inoltre questa organizzazione accurata e razionale permetteva il trasferimento di saperi da un cantiere all’altro.

La chiesa

La chiesa, a croce latina, generalmente la si trova collocata nella parte più elevata del terreno disposta quasi sempre nel lato Nord del complesso.  Probabilmente  per ripararla  dai venti di  tramontana e per permettere alla luce di penetrare gli  altri edifici.

La sala capitolare

Si tratta di un ambiente impostato ad quadratum, suddiviso in spazi uguali da uno o più pilastri. Dopo la chiesa e il chiostro è certamente il luogo più importante per l’abbazia.

In questa sala si concludeva ogni giorno l’ufficio di Primacon la lettura del Martirologio, la lettura   di un capitolo della Regola di San Benedetto. Luogo dove si svolgevano  anche le riunioni comunitarie per questioni riguardanti il monastero, come l’elezione dell’abate, l’ammissione al noviziato e alla professione dei consigli evangelici, gli acquisti e le vendite dei terreni e tutti i problemi di una certa importanza.

Il dormitorio dei monaci

“Ciascun monaco dorma in un letto separato. Riceva l’occorrente per il letto conformemente all’uso monastico e secondo quando dispone l’abate. Se è possibile dormano tutti in un solo ambiente”. (Regola, cap. 22).

Tutto il piano superiore dell’ala orientale del monastero (dalla sagrestia alla sala dei monaci) costituiva il dormitorio dei monaci. Vi si accedeva sia dal transetto destro della chiesa che dal chiostro. In alcuni casi è una grande sala rettangolare, mentre il più delle volte è divisa da una o due serie di colonne.

Il Parlatorio o Auditorium.

Trattasi di un vero e proprio corridoio. L’uso di questo locale non è aveva il compito probabilmente di svolgere più funzione un ambiente non definito, costituiva il passaggio dei monaci dal chiostro ai terreni. Probabilmente il luogo dove il Priore assegnasse il lavoro della giornata.

La Sala dei Monaci

Le dimensioni di questo ambiente variano al variare dell’importanza delle abbazie. In questa sala si venivano fatti tutti quei lavori che non potevano essere fatti all’aria aperta, luogo di incontro e di studio.

Il Calefactorium

Mentre il terzo lato del chiostro, il lato  Sud, inizia con il Calefactorium (cioè un ambiente riscaldato), munito di un grande camino dove i monaci andavano a meditare o leggere nei giorni particolarmente freddi e durante gli intervalli dell’ufficio divino notturno.

Il refettorio dei monaci

I monaci devono prendere i pasti in comune nel refettorio.

La cucina

La cucina, quasi sempre a forma quadrata o rettangolare, di dimensioni molto modeste non era permesso a nessuno entrarvi se non ai cucinieri di turno questi venivano disegnati dall’abate.

Quando il calefactorium era spento, vi si preparavano gli inchiostri e le pergamene, altro particolare era permesso al sagrestano prendere il fuoco per gli usi liturgici.

Il Refettorio e il Dormitorio dei Conversi

Il Refettorio e il Dormitorio dei fratelli conversi che completano l’ala orientale dell’abbazia sono in pratica della medesima struttura, eleganza e semplicità di quelli riservati ai monaci. Nei pannelli che seguono si potranno ammirare alcuni tra i numerosi esemplari ancora disseminati in tutta Europa.

Il Dispensarium

Il dispensarium ambiente destinato ai conversi. Esso serviva come sala di lavoro, deposito, magazzino per le molteplici attività che i conversi svolgevano anche nell’ambito dell’abbazia.

Il lavabo

Il lavabo era collocato vicino al refettorio, aveva diversi   getti d’acqua per permettere a più monaci di lavarsi contemporaneamente di bere ecc. 

 


È la più costosa mai comprata all'asta: Picasso la spedì al poeta Apollinaire, ma non arrivò mai a destinazione. Una cartolina contenente un disegno del famoso pittore spagnolo Pablo Picasso è stata venduta all'asta per 166 mila euro escluse le commissioni dall'asta. Il lato stampato della cartolina rappresenta una foto aerea di una piccola città francese vicino al confine spagnuolo chiamata Pau. Mentre il retro, invece, contiene un disegno e la scritta “Sainte Apollinaire”.  La cartolina è datata 5 settembre 1918 e fu spedita daPicasso al suo amico Guillaume Apollinaire, questo altro non era che un celebre poeta francese. Secondo fonte certe, la cartolina non arrivò mai a destinazione perché Picasso scrisse il nome di Apollinaire in spagnolo, chiamandolo Don Guillermo: lo testimonia il fatto che nel retro – oltre al disegno – ha un timbro che per le poste francesi significa “destinatario sconosciuto”. 


Caro amico sinteticamente descrivo circa la località Qumran.

Qumran, sulle riva occidentale sul   Mar Morto, località dove sono stati ritrovati i  manoscritti.

Ritrovamento avvenuto per caso nel 1947 Mohamad ed-Dhib, beduino della tribù Ta’amireh,

impegnato alla ricerca di una delle sue capre, beduino che nel lanciare  un sasso il tonfo del sasso, gli fece capire la  presenza di una grotta. Ritorta sul luogo con il cugino, ed entrando nella grotta trova una serie di giare alcune erano perfettamente sigillate.

 In una di queste tre rotoli manoscritti, nel raggio di pochi chilometri, furono scoperti 11 grotte, ognuna aveva conservato manoscritti o altri reperti archeologici che testimoniavano l’esistenza in quella zona di una comunità di origine giudaico.

Questi  manoscritti si erano conservati, alcuni di questi pressoché intatti, per circa due millenni.

Le grotte di Qumran hanno restituito i resti di circa 800 frammenti  manoscritti datati tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C., scritti, copiati e portati da altre zone a Qumran.

 Sono scritti in ebraico, in aramaico, alcuni in greco, molti pur frammentati, comprendono brani della Bibbia ebraica altri invece riguardano la dottrina della setta di  Qumran, fra tutti gli scritti fu trovata la celebre "Regola della comunità" di Qumran.

La comunità di Qumran rappresenta secondo illustri studiosi una variante del più ampio gruppo religioso degli Esseni, una delle principali sétte del giudaismo di epoca neotestamentaria insieme a Sadducei e Farisei.

Molti archeologi di oggi ritengono che gli Esseni scrissero alcuni, ma non tutti, i Rotoli del Mar Morto. 

Nuove testimonianze archeologiche suggeriscono che svariati gruppi ebrei siano passati per Qumran attorno al 70 d.C, durante l'assedio romano di Gerusalemme, che distrusse il Tempio e gran parte della città.

Ma e pur vero che se i Rotoli fossero stati portati qui da altri luoghi, magari da altri gruppi di ebrei, avremmo dovuto trovare elementi coerenti con idee in disaccordo con quelle degli Esseni.

Ma non è così", spiega Schiffman, che contesta le interpretazioni che collegano alcuni  manoscritti a gruppi come quello degliZeloti. 

Chiunque li abbia scritti, furono conservati con molta cura. Sicuramente trattasi di uno dei più grandi ritrovamenti del secolo scorso.

                                                             Franco e Antonio DIMA


CONCORDATI  VATICANO

Il Concordato, accordo Stato Italiano e Chiesa

L’11 febbraio 1929, Benito Mussolini, capo del governo italiano e il cardinal Pietro Gasparri Segretario di Stato vaticano, firmano il Concordato (Patti Lateranensi) si chiamano  Lateranensi perché il luogo dove vennero firmati appunto San Giovanni in Laterano.

 sinteticamente viene previsto:

1)      la Santa Sede riconosce lo Stato italiano con Roma capitale e lo stato italiano riconosce  la sovranità sullo della santa sede sulla  Città del Vaticano.

2)      Lo stato Italiano si impegna a pagare al Pontefice una indennità, come riparazione per aver perso lo Stato pontificio.

3)      il concordato prevede  che la religione cattolica  è la sola religione di Stato e ne  stabilisce l’insegnamento nell’ istruzione pubblica.

I Patti Lateranensi sono riconosciuti dalla Costituzione italiana Art. 7, «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.  

I Patti Lateranensi sono stati rivisti con il Concordato del 18 febbraio 1984, presidente del Consiglio italiano, Bettino Craxi, e il cardinale Agostino Casaroli, in rappresentanza della Santa Sede, questo concordato fu firmano a Roma, a Villa Madama. Questo nuovo Concordato prevede:

1) La religione cattolica non è più definita sola religione di Stato.

2) L’ora di religione obbligatoria nelle scuole, diventa facoltativa.

3) Un matrimonio celebrato col rito religioso può essere riconosciuto come unione civile,  dallo stato italiano.

4) Viene  introdotto un nuovo metodo di sostentamento della Chiesa, il famoso 8 per mille, che entra in vigore il 1° gennaio 1990.

 Il concordato  tra il Vaticano e la Germania 20 Luglio 1933 

 Il Segretario di Stato vaticano Pacelli (che poi diventa papa Pio XII, firmò il Reichskonkordat (Regno concordato) con il braccio destro di Hitler, Fritz von Papen.

 

La Germania fu il Quinto stato  che ha fatto concordato con il vaticano .

Il concordato che  Pacelli  futuro Pio XII, fece  con Hitler portò la chiesa a guadagnarci la tassa ecclesiastica, a beneficio delle chiese cattoliche e protestanti.

Una parte bel consistente  di questo denaro affluiva in Vaticano.

 

Con questo concordato Il vaticano ottiene dal nazismo:

1)  Il diritto di insegnare la religione cattolica nelle scuole tedesche

2) Libertà di movimento e comunicazioni del clero sul territorio.

3) Il diritto di incassare tasse ecclesiastiche, ed altri privilegi di minore importanza. 

 

Con questo concordato Adolf Hitler ottiene dal Vaticano:

1)  Ottiene  il primo riconoscimento ufficiale della nuova Germania da uno stato straniero (Vaticano)

2) Il Vaticano mise al bando le forze politiche cattoliche tedesche, che rappresentavano un grosso  problema per il nazismo.

3) Il Vaticano aiutò ad eliminare i partiti popolari cattolici sia in Italia che in Germania, centralizzando tutte le questioni politiche su Roma.

Da Ricordare che Nel 1691,Papa Innocenzo XII (1 °papa che fece  bruciare  vivi 37 ebrei). Morti totali durante l’inquisizione­  41

Pio XI era contro liberalismo, socialismo e comunismo e nel 1933 fece un concordato anche con Hitler, sostenne Franco, Salazar e Dolfuss in Austria, combatté il matrimonio civile, difese la scuola cattolica contro quella pubblica e, per compiacere il fascismo, provocò lo scioglimento del partito cattolico di Don Sturzo

 

 Il 2 marzo 1939 , il segretario dello stato del Vaticano cardinale  Pacelli diventa papa Pio XII.

 

Poco più tardi Pio XII  scrive a Hitler:

All’illustre sig. Adolf Hitler, Fuhrer e Cancelliere del Reich tedesco.

All’inizio del nostro pontificato desideriamo assicurarle che continueremo a impegnarci per il benessere spirituale del popolo tedesco, che confida nella sua guida…

Ora che le responsabilità della Nostra funzione pastorale hanno accresciuto le Nostre opportunità, preghiamo più ardentemente per il raggiungimento di questo obiettivo. 
Che la prosperità del popolo tedesco e il suo progresso in tutti i campi, con l’aiuto di Dio, possano compiersi.”

 

Concordato  António de Oliveira Salazar (Portogallo)  Vaticano del 7 maggio 1940

in sostituzione di quello del del 23 giugno 1886  e fu sostituito dal concordato del 18 maggio 2004;

Concordato  27 agosto 1953 con la Spagna di Francisco Franco,

sostituito dai quattro accordi del 3 gennaio 1979 dopo il ritorno di questa alla monarchia costituzionale democratica;

 

Altri  concordati celebri sono:

Concordato di Worms (1122) tra papa Callisto II e l'imperatore del Sacro Romano Impero Enrico V, che conclude la Lotta per le investiture;

Concordato di Vienna (17 febbraio 1448) tra Niccolò V e l'imperatore Federico III d'Asburgo, che regola i rapporti tra la Santa Sede e gli Asburgo;

Concordato di Bologna (1516) tra papa Leone X e il re di Francia Francesco I;

Concordato del 1727 con il regno di Sardegna;

Concordato del 1741 con il regno di Napoli;

Concordato del 1753 e Concordato del 16 marzo 1851 con il regno di Spagna;

Concordato del 1778 con il regno del Portogallo (verrà sostituito il 23 giugno 1886);

Concordato del 1801 e Concordato del 1813 tra papa Pio VII e Napoleone imperatore dei Francesi;

Concordato del 3 agosto 1847 con lo zar di Russia Nicola I, sostituito dal Concordato del 23 dicembre 1882;

Concordato del 1855 tra papa Pio IX e l'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe, sostituito in Austria dal concordato del 5 giugno 1933;

Concordato del 10 febbraio 1925 con la Polonia, originato dalla riconquistata indipendenza di questa, sostituito dal concordato del 28 luglio 1993;


Da un documento custodito (vedi immag. sotto) nella Casa Buonarroti (Firenze) si evince uno dei  menù preferiti da Michelangelo.

In questo documento oltre ad elencare le provviste da acquistare, Michelangelo disegnò alcune di esse nella parte destra del foglio, probabilmente per facilitare il compito dell'inserviente, probabilmente  semi-analfabeta.

In questo documento notiamo cosa desiderava mangiare uno dei maggiori artisti di sempre.

- Pani dua - due pezzi di pane

- Un bocal di vino - un quarto di vino

- Un ariga - un'aringa

- Tortegli - tortellini

- Una salama - un salame

- Quattro pani - quattro pezzi di pane

- Un bochal di zodo - ?

- Un quartuccio di bruschino - un quarto di Bruschino (forse vino)

- Un piattello di spinaci - un piattino di spinaci

- Quattro alici

- Tortelli - tortellini

- Sei pani - sei pezzi di pane

- Due minestre di finocchio - due minestre di finocchio

- Un aringa - un'aringa

- Un boccal di zondo -un boccale di Zondo (forse vino)


Epitaffio di Diofanto di Alessandria

Epitaffio parola greca  epitáphion, ”ciò che sta sopra al sepolcro”  quindi iscrizione funebre. Scopo dell’epitaffio, onorare e quindi ricordare il defunto.

Per Foscolo la tomba serviva a ricordare le imprese del  defunto e mantenere un stretto legame tra i vivi e i morti, quindi  dona  all’epitaffio una notevole importanza.

 

Diofante  fu un grande matematico greco, vissuto, secondo alcune attorno al 200 d.C. e deceduto probabilmente attorno al 284 d. C., secondo altri  la sua vita si svolse tra il 150 e il 250 d.C., si narra che si  divertiva a creare e risolvere problemi che richiedevano  l’uso dei numeri interi per la loro risoluzione.

 

L’epitaffio scritto sulla tomba di Diofante dice :

«Questa tomba rinchiude Diofanto e, meraviglia!

dice matematicamente quanto ha vissuto.

Un sesto della sua vita fu l'infanzia,

aggiunse un dodicesimo perché le sue guance si coprissero della peluria dell'adolescenza.

Dopo un altro settimo della sua vita prese moglie,

e dopo cinque anni di matrimonio ebbe un figlio.

L'infelice (figlio) morì improvvisamente

quando raggiunse la metà dell'età che il padre ha vissuto.

Il genitore sopravvissuto fu in lutto per quattro anni

e raggiunse infine il termine della propria vita.»

 

Indicando con x la durata (incognita) della vita

A quanti anni é venuto a mancare Diofanto?

 

X/6 + X/12 + X/7 + 5 + X/2 +4 + X

 

La soluzione è:  x = 84  Diofanto morì all'età di 84 anni.

Trovato il valore dell'incognita, 84 siamo in grado di capire che:

 

 

- si sposò a 21 anni;           - diventò padre a 38;     - perse suo figlio a 80 anni.


PINOCCHIO

 


Pinocchio è un burattino con un naso lungo, un cappello di pane, un vestito di carta ecc., ma questo da solo non basta, infatti   per essere pinocchio deve avere un cervello da bambino e dentro a quel tronco di legno un cuore da uomo, proprio per questo diventa un burattino speciale uno diverso da tutti gli altri.

Il desiderio più grande di Pinocchio in fondo era diventare un bambino e lo aveva esplicitamente dichiarato alla Fatina dai capelli turchini: quando gli disse:

" Oh! sono stufo di fare sempre il burattino! Sarebbe ora che diventassi anch'io un uomo come tutti gli altri "

Ma non gli era mai riuscito, soltanto quando si mise ad agire seguendo gli impulsi buoni del suo cuoricino   diventa un bambino.

Il burattino descritto da Collodi, a mio modesto parere altro non è che un eroe, si proprio così! Un eroe, un eroe non perfetto ma imperfetto.

 

Pinocchio non è il solito guerriero, il buono, il principe, il Re, ma un qualcosa di molto più umano rispetto a tanti personaggi della letteratura in genere.

Pinocchio, resterà sempre contemporaneo, per il semplice motivo che ci rappresenta, perché ognuno di noi almeno una volta nella vita è stato come lui: bugiardo.

Purtroppo, a differenza di ciò che accade nelle favole, nella vita reale il finale non è sempre come nella favola di Pinocchio cioè del riscatto sociale, dell’umanizzazione dell’eroe imperfetto, ma le bugie si sommano ad altre bugie, dando vita ad un circolo vizioso dal quale è difficile o meglio impossibile uscire.

Pinocchio diventa simile a noi in diversi sentimenti, ad esempio è capitato in passato, capiterà sicuramente in futuro che incontreremo persone che fin dall'infanzia hanno subito umiliazioni, delusioni ed altro, tanto da generare in loro una vera e propria sensazione di vergogna, pur cercando ad ogni costo l'amore degli altri.

Proprio questi individui che fuggono sempre davanti agli altri, probabilmente   non si sono mai sentiti amati dai genitori, dagli amici, ecc. Ecco che diventano sempre più soli, auto emarginandosi.

 

Questo sentimento straziante, costantemente presente, già dalla giovane età, è causato probabilmente anche da genitori egocentrici, non capaci di aprir loro la porta verso la vita, quella vera.

Genitori non capaci di preparare il proprio bambino per la vita facendolo diventare soggetto partecipe.

Spesso troviamo genitori che desiderano, un figlio educato, gentile, bravo, come fosse un trofeo da esibire agli altri.

Non bisogna mai con accanimento colpevolizzarli, sgridarli per cose troppi futili, il bambino non deve essere messo di continuo alla prova, il bambino non deve compensare l’umiliazione subite dai genitori. 

 

Collodi ha descritto in questo bellissimo romanzo “le avventure di pinocchio”, questo tipo di genitore, attraverso il personaggio della Fata, che rappresenta perfettamente una personalità priva di coerenza ed egocentrica, animata solo dalla volontà di potenza, trattando Pinocchio da stupido.

 Una donna con una doppia personalità, a volte   si comporta da «buona mamma», facendo sedere Pinocchio ad una tavola apparecchiata a volte, invece, offre a Pinocchio   pane di gesso, albicocche di alabastro.

 Insomma la fata è   una maestra severa, che sottopone Pinocchio a regole rigidissime   tanto da farlo diventare un ottimo allievo. 

 

Mentre da un’analisi che vedremo in seguito fatta dal Cardinale Biffi, questa madre rigida, egocentrica, quasi bambina fa sì che   Pinocchio diventa un bambino che dimentica i propri bisogni. Tanto che in un passaggio della favola Pinocchio dopo aver saputo che   la Fata giace in ospedale: esclama «Oh che grande dolore, che mi hai dato! Oh, povera Fatina! Ripetendolo più volte   e di continuo …. Se avessi un milione, correrei a portarglielo... Ma ciò solo quaranta soldi... Eccoli qui: andavo a comprarmi un vestito nuovo, prendili, dice alla Lumaca, e vai a portarli subito alla mia buona Fata! aggiunge ancora Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là lavorerò cinque ore in più per mantenere anche la mia buona mamma.

Questa sorte di compassione non è rara anzi spesso ci troviamo difronte a famiglie dove   il figlio si assume la responsabilità di prendersi cura della madre, che si comporta   da bambina.

 

 

Ciò che la Fata fa a pinocchio nessuna madre si sognerebbe di fare al proprio figlio. Ricordate   quando Pinocchio si avvicina alla casa della Fata, e mentre cammina trova una piccola pietra di marmo, con sopra una scritta: 
QUI GIACE LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO

Pinocchio   dopo aver letto la scritta cade bocconi   per terra e, coprendo di mille baci quel marmo, scoppia a piangere. Lo fa per tutta la notte e la mattina dopo.

 

Egli piangendo dice: «Oh Fatina mia, perché, sei morta? Perché, invece di te, non sono morto io che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona? [...] Oh, Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!

 

Se davvero mi vuoi bene, …… ritorna   viva come prima! .....  Non ti dispiace a vedermi solo e abbandonato da tutti?»

Questo per dire che spesso i genitori portano a far perdere il proprio io ai propri figli.

Questi bambini vivono unicamente per i   genitori   diventando sempre più frustati e sempre più soli dei veri e propri emarginati.  Come tutte le favole ognuna ha la sua morale, anche Pinocchio ha la sua. Ma la favola di Pinocchio non è una semplice   favola ma è molto di più. Altro non è che un viaggio di una persona alla conquista della sua umanità. Infatti   la morale di Pinocchio qual è? 

E’ questa: nella vita non dobbiamo essere figli ma essere dei buoni figli.

Altrimenti il paese dei Balocchi sarà sempre lì ad aspettarci.

CARLO LORENZINI  Carlo Lorenzini, detto Collodi, nacque a Firenze il 22 novembre 1826 da Domenico Lorenzini e da Angiolina Orzali. Lui   cuoco lei   figlia di un fattore, dopo le nozze si trasferiscono da Collodi a Firenze per lavorare in casa del marchese Richard Ginori.

 

Carlo Lorenzini, come Paolo suo fratello, si riscattò dalla condizione sociale molto umile grazie agli studi, sostenuti economicamente dal marchese. Carlo inizialmente venne avviato alla carriera ecclesiastica, presto se ne allontanò per continuare gli studi presso gli Scolopi a Firenze.

Carlo Lorenzini   non riuscì forse per proprio volere a formare una famiglia, non ebbe figli, ebbe la fama di essere persona poca incline al lavoro e incline ai vizi. Visse l’ultima parte della sua vita presso la casa del fratello insieme alla madre.

Morì nel 1890, quattro anni dopo la morte della madre.

Attività intellettuale Carlo Lorenzini, fu direttore e collaboratore di alcuni periodici pubblicati nell’ interland di Firenze come: Il Lampione, Scaramuccia, Il Fanfulla, con i relativi supplementi di quest’ultimo Il Fanfulla della domenica e Il Giornale per i bambini.  Lorenzini, come altri suoi colleghi, iniziò a scrivere sotto uno pseudonimo, “Collodi”, un paesino graziosissimo, arrampicato sulla pendice di una collina, in mezzo agli ulivi, con un bellissimo giardino nel mezzo. Allora Carlo Lorenzini pensò di firmare i suoi scritti, non col suo nome, ma con quello di Collodi, del paese della sua mamma. 

 

Al giornale Il Fanfulla della domenica collaborarono anche De Sanctis, Verga, Capuana, Carducci, D’Annunzio.

Genesi dell'opera Il 7 luglio del 1881 su Il Giornale della Domenica che era un supplemento domenicale   de Il Fanfulla vengono pubblicati i primi due capitoli della favola di Pinocchio con il titolo La Storia di un burattino.  Le   pubblicazioni continuarono anche se   in maniera discontinua   fino ai capitoli XIV e XV del 27 ottobre dello stesso anno, fine a quando Pinocchio, morì   impiccato. Il 16 febbraio 1882 riprendono le pubblicazioni con il titolo mutato in Le avventure di Pinocchio. Anche questa ha avuto numerose interruzioni e lunghe pause fino al capitolo finale, il XXXVI, che viene pubblicato il 25 gennaio 1883. Il mese successivo viene pubblicata la prima edizione del volume Le avventure di Pinocchio con le illustrazioni di Enrico Mazzanti. Oltre alla prima edizione del 1883 comparvero altre quattro edizioni prima della morte dell’autore: 1886, 1887 anche se di questa non vi è più   traccia, 1888 tutte presso la Libreria editrice Felice Paggi; 1890 presso R. Bemporad & Figlio, concessionari della Libreria Paggi. Collodi apre il racconto di pinocchio con una battuta esemplare

“C’era una volta…  Un re! .  No. C’era una volta un pezzo di legno.

Uno di quelli che d’inverno si mette nelle stufe o caminetti per riscaldarci.

Qui si intravede il senso ironico   di Collodi che stravolse la struttura stessa della fiaba tradizionale mostrando un anti-eroe: non un re o un principe, ma un pezzo di legno, e neanche di legno pregiato ma un umile povero pezzo di legno.

Curiosità Sapete perché Collodi definisce Pinocchio un   burattino? Pinocchio apparterrebbe per tipologia alle marionette, piuttosto che ai burattini. Le marionette sono fantocci di legno o cartapesta, azionate dall’alto tramite fili. I burattini, al contrario, sono mossi dal basso verso l'alto: la mano del burattinaio entra in un buratto di stoffa sotto il vestito e con le dita ne dirige il movimento.

 

 

Realismo e Fantasia

Collodi dà vita in Pinocchio a un mondo ibrido, un misto tra reale e fantasia.

Collodi stesso si rivolge a Pinocchio una volta come ragazzo una volta come   burattino. 

Una particolarità che personalmente ho potuto cogliere che Collodi sembra quasi prediligere l’ambientazione notturna, questa occupa una parte rilevante della narrazione. La notte fa da sfondo, accompagna se così si può dire alle più gravi disavventure di Pinocchio, come l’inseguimento degli assassini, la fuga dalla bocca del Pesce-cane, la trasformazione in ciuchino.

In Pinocchio Collodi descrive i paesaggi della campagna Toscana, che conosce molto bene. Sono cinque le principali scenografie in cui si svolgono le vicende di Pinocchio: la città, il paese, la campagna, il bosco e il mare. La città più nota dell’opera è quella di Acchiappacitrulli che   raccoglie in se stessa ogni tipo di cialtrone e malandrino ed animali parlanti come il giudice Gorilla.

Il paesaggio toscano, che Collodi in Pinocchio ci descrive è un mondo molto vicino alla realtà contadina una realtà povera, semplice, dove fanno da padrone, fame e miseria. Tanto   che Pinocchio si ritrova spesso a subire i morsi della fame, in alcuni casi il corpo di Pinocchio è addirittura mangiato da altri: come nel caso dei pesci che mangiano il ciuchino, o dei picchi che beccano il naso di Pinocchio.

Infatti l’insegnamento di Geppetto è che nulla può essere sprecato, nemmeno le bucce delle pere, proprio perché se oggi sai cosa mangi, non sai se mangerai domani.

Tutto il racconto di Pinocchio è costruito   intorno allo schema della “prova”: l’eroe Pinocchio deve superare difficili prove per poter raggiungere il suo obiettivo,  la propria umanizzazione, che sancisce l’atto di crescita del burattino: Pinocchio smette di essere fanciullo per diventare uomo maturo e responsabile, quindi si compie l’umanizzazione e con essa lo status sociale infatti nell’ultimo capitolo, si ritrova in abiti borghesi in una casa pulita ed elegante, quindi avviene quel riscatto sociale che tanto tanto caro fu allo stesso Lorenzini.

Genitore-Figlio

Il burattino Pinocchio nasce come tutti sappiamo per mano di Geppetto, egli ne   lavora il legno lo scolpisce, fino ad arrivare al burattino che tutto conosciamo   dandogli il nome Pinocchio. Geppetto sin dall’inizio riveste il ruolo di padre, sin dall’inizio sente il bisogno di diventarlo, tanto da riconoscere da subito piaceri e dolori dell’essere padre.

L’istruzione per Geppetto è di gran valore, tanto da vendersi la giacca, cosciente di passare   l’inverno al freddo pur di poter comprare l’abbecedario al proprio figlio.

 L’istruzione sia per Collodi che per Geppetto è l’unico strumento in mano al povero per potersi riscattare nella società uno strumento per avanzare di classe sociale, Collodi lo sa e molto bene per la sua personale   esperienza.

Nel romanzo troviamo una figura   femminile quella della fata, figura analizzata sotto molti aspetti a da molti personaggi il rapporto con questa appare difficile, ambiguo e mutevole.

 La fata entra nel racconto al XV capitolo. Attraverso l’immagine di una bambina morta che nega il suo aiuto a Pinocchio, inseguito dagli assassini. Nel XVI   capitolo la bambina risorge ma come fata, pur restando bambina. In un primo momento sembra un rapporto

di sorella e fratello, poi la fata   bambina muore nuovamente e risorge come la “brava donna” delle isole delle Api industriose.

Da questo momento   diventa una mamma ma a volte una mamma molto, troppo severa.

L’amore di Geppetto è totale, incondizionato fino a buttarsi in mare alla notizia che il figlio scapestrato era diretto in terre lontane.

Ma dall’altra parte troviamo l’amore del figlio, anche se scapestrato, capace di cadere in tentazione ma comunque ha sempre il suo babbo nel cuore. Infatti   per ritrovare suo babbo deve toccare il fondo, lo ritrova quando trasformato in somaro, gettato con una pietra al collo   in fondo al mare e da qui nella pancia del Pesce-Cane ritrova il papà.

Lo trovò seduto ad   una piccolissima   tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa questa infilata in una bottiglia di vetro color verde, e seduto a tavola un vecchiettino con capelli e barba bianca.

E cosi che successe che a   quella vista   Pinocchio emozionato come non mai si getta al collo del vecchietto cominciando   ad urlare: ‘Oh! Babbino mio!

Finalmente vi ho ritrovato! D’ora in poi non vi lascio più, mai più, mai   più!’

In questo incontro Pinocchio finalmente racconta al padre tutte le sue disavventure, gliele consegna, certo del suo perdono. Proprio in questo racconto catartico che Pinocchio riconosce i suoi sentimenti più profondi, l’amore verso suo padre e il desiderio di non “smarrire più la giusta via” in questo   momento comincia il cammino che lo porterà a trasformare il proprio cuore “di legno” in un cuore “umano”.

Secondo il Cardinale Biffi quella di Pinocchio altro non e che la sintesi dell'avventura umana. Un romanzo che inizia con   un artigiano che costruisce un burattino di legno che non so per quale strano motivo lo chiama subito, figlio.

Se il libro di Pinocchio nato per caso, scritto con poca voglia per un giornale di bambini, a puntate irregolari, interrotto due volte, e comunque ha avuto un successo mondiale, la spiegazione è una sola. Probabilmente contiene un messaggio eterno, che tocca il   cuore di tutti gli uomini.

Biffi dà   una   perfetta e bellissima lettura teologica a tutto il libro, ad esempio la Fata Turchina? Per Biffi rappresenta la salvezza donata dall'alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna».
 E Lucignolo? «È la perdizione.  Il diavolo?

«Il Gatto e la Volpe la tentazione

Ma se da una parte e tutto questo dall’altro è uno dei simboli della bugia.

 Tutti nella vita, abbiamo o diciamo bugie, magari piccole per alleggerire certe situazioni, dette per addolcire la realtà magari rispetto a qualche persona cara. La bugia diventa patologica detta anche   sindrome di pinocchio quando una persona mente di continuo.

Il bugiardo patologico   ha fortuna solitamente solamente nelle fasi iniziali, cioè quando una persona gli dà fiducia poi   in tempi più o meno rapidi vengono scoperti.

Il bugiardo patologico ha un fine ben preciso provocare ammirazione stupire le persone che si hanno difronte, cercare di dare un'immagine falsa di sé, scopo attirare l'attenzione e per emergere rispetto ad altre persone.

Ritornando all’esame teologico di Biffi il grillo parlante   rappresenta “il mistero della coscienza morale che ogni uomo esperimenta dentro di sé”.

Ma per molti si tratta di una favola massonica. Secondo alcuni Carlo Lorenzini   conosciuto con il pseudonimo di Carlo Collodi, inventore di Pinocchio, era   massone. Questa sua opera “Le avventure di pinocchio” altro non è che una parabola massonica.
Se visitiamo il sito della loggia Hochma 182 in un articolo leggiamo “Pinocchio: una storia iniziatica”: 
La fiaba di Pinocchio, tradotta in 240 lingue, libro per   notorietà secondo solo alla Bibbia.

Il fatto che   Carlo Lorenzini, apparteneva alla Fratellanza non è provato da nessun documento ufficiale. Aldo Mola, storico ufficiale della massoneria ma non appartenente ad essa, afferma   con decisione che Collodi facesse parte della famiglia massonica.

Molti sono gli   eventi della vita di Collodi che confermano questa tesi. Esempio la creazione nel 1848 di una pubblicazione intitolata "Il Lampione", che, come egli stesso affermava, “illuminava' tutti coloro che fossero nelle tenebre”. E poi l'estrema ammirazione che nutriva nei riguardi di Giuseppe Mazzini.

Comunque nelle “Avventure di Pinocchio” i contenuti esoterici   sono numerosi.

Il   legno da cui esce fuori Pinocchio   lavorato da Geppetto   educato in maniera severa dalla fata per diventare uomo, in poche parole Pinocchio   percorre un percorso iniziatico che lo condurrà alla trasformazione del suo essere.

I simboli sono molti, lo scalpello, il maglio di Geppetto, i cappucci neri dei conigli che si danno da fare per far bere a Pinocchio la porzione amara datagli dai 3 medici, per non aver adempiuto a qualche impegno preso, proprio i medici stanno a rappresentare in modo simbolico il Maestro Venerabile poi il I ed II sorvegliante. Ancora   al capitolo XXIII, la lapide della bambina dai capelli turchini abbandonata dal suo fratellino Pinocchio, rappresenterebbe la prima iniziazione del burattino, ufficialmente fratellino. La stessa figura di Mangiafuoco minaccioso e duro, ma allo stesso tempo   compassionevole da vero Maestro, dopo aver minacciato pinocchio gli regala le cinque monete.

Altro simbolo massonico l’impiccagione   di   Pinocchio, nell’ immagine dell’impiccagione c’è l’allusione alla “morte iniziatica”, ovvero una prefigurazione della morte fisica intesa come rituale per accedere ad una nuova vita.

Il campo dei miracoli   ricorda la volta stellata del Tempio.

Oppure nell’episodio della locanda in cui Pinocchio   viene svegliato da “tre colpi” alla porta, i fatidici tre colpi d’Apprendista.

Le colonne del tempio sono sormontate ciascuna da duecento melograni, quattrocento in tutto, in Pinocchio, guarda caso la fata turchina confeziona quattrocento panini e prepara duecento tazze di caffè e duecento tazze di latte.

Altro segno massonico, quando Pinocchio inghiottito dal pescecane, ritrova nella pancia del pesce Geppetto seduto ad un tavolino con sopra una candela dentro una bottiglia di cristallo verde.
Tutto fa presupporre al gabinetto di riflessione: il tavolino, la candela, gli scheletri dei pasti del pescecane, il sale dell’acqua marina, il nero dello   stomaco del predatore dei mari.

Il verde della bottiglia, invece, rimanda al colore sacro del Graal e dello smeraldo. La volta celeste che Geppetto e Pinocchio intravedono guardando il cielo uscendo dalla bocca della balena.

Infatti in tutte le logge massoniche il soffitto è proprio una volta celeste.

Ritornando all’autore questi   cambiò il proprio nome in Collodi nel ’59, in coincidenza del suo trentatreesimo compleanno, cifra di alto significato nel processo di maturazione massonica.

Per concludere da quella che poteva sembrare una semplice favola per bambini si è dimostrata essere un opera piena di scene e situazioni dal retrogusto esoterico e simbolico.

 

 


Le Corbusier

 uno dei più creativi e influenti architetti del ‘900.

Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret-Gris, nato in Svizzera a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887, moriva in Costa Azzurra il 27 agosto 1965. Morì in un modo insolito ma nel modo come aveva sempre sperato, nuotando in mare e vicino al suo Cabanon, il piccolo bungalow di Roquebrune-Cap Martin.

Le Corbusier era un autodidatta, infatti non conseguì una laurea in architettura. Nonostante ciò è stato allievo di grandi architetti come Joseph Hoffmann a Vienna, Auguste Perret a Parigi, Peter Behrens a Berlino egli ha avuto una formazione più che da architetto da decoratore. Successivamente frequenta l’Ecole Industrielle, e l’Ecole d’Art nella sezione di incisione ornamentale. A 15 anni disegna un orologio da taschino che vince il primo premio all’Esposizione delle Arti Decorative di Torino. Inizia ad utilizzare il pseudonimo nel 1920 per firmare alcuni articoli pubblicati sulla rivista L’Esprit Nouveau, proprio dal 1920 che inizia a realizzare progetti architettonici. Al centro di tutta la sua architettura l’uomo, da qui inizia un nuovo modo di concepire l’organismo edilizia.

Il vero protagonista di tutti i suoi progetti con il maestro si ribalta la prospettiva si ribalta, non è l’uomo a doversi inserire in uno spazio, è lo spazio che deve inserirsi nell’uomo. La casa non viene più concepita con involucro dove l’uomo dorme mangia ecc, la casa diventa luogo di ritrovata armonia dell’anima.

Unité d’Habitation a Marsiglia, 1947-52

Per capire prendiamo ad esempio due differenti modi di abitare:

Ville Savoye a Poissy terminata nel 1931 e l’Unité d’Habitation di Marsiglia inaugurata nel 1952. Ville Savoye è pensata per essere abitata dall’uomo nella sua armonia interiore.

L’Unité d’Habitation è invece la rappresentazione se vogliamo di un’utopia realizzata, un alveare di abitazioni, negozi, strade, un organismo edilizia in un certo senso autosufficiente una rappresentazione di quella che era l’idea di falansterio dell’utopismo socialista settecentesco di Charles Fourier. 

 Ville Savoye a Poissy, 1929-31   è una residenza privata  costruita tra il 1928 e il 1931 su commissione di Pierre Savoye.

Trattasi del manifesto più conosciuto del movimento moderno e in particolare del cubismo architettonico.

La posizione periferica di Villa Savoye rispetto a Parigi comportava l'utilizzo dell'auto per la famiglia Savoye e cosi’ il maestro realizzò a partire dal piano terra per accogliere l'auto dei coniugi; la curvatura del garage e dell'ingresso principale non è altro che il risultato di questa scelta.

L'opera rappresenta i 5 principi dell'architettura moderna:

La pianta libera che si individua dalla totale mancanza di setti murari portanti

I pilotis o pilastri questi infatti svuotano il piano terra dai setti murari portanti e garantendo il posizionamento di un garage al centro del piano.

La   facciata libera   indipendente dalla struttura, fatta da elementi verticali atti a ospitare vuoti o pieni a piacimento del progettista.

La   finestra in lunghezza, che in Villa Savoye percorre quasi tutti i quattro prospetti questo permette una maggiore illuminazione naturale degli ambienti, ed un'ampia visuale verso l'esterno.

Il   terrazzo giardino, il terrazzo infatti diventa un giardino coltivabile anche un solarium protetto da una parete tagliavento che riprende la forma delle curve al piano terra. Tra il 1907 e il 1909, Le Corbusier ha visitato (e spesso ridisegnato) opere osservate in Italia (in particolare, la Certosa di Ema che negli anni Cinquanta diventerà modello per la costruzione del convento di La Tourette). Fino a raggiungere la Francia – a Lione ha incontrato Tony Garbier e Parigi, divenuta temporaneamente la sua nuova casa, grazie a un impiego ottenuto come disegnatore presso i fratelli Perret. Nei primi anni ’30 Le Corbusier pubblica La città radiosa: testo che descrive la sua città ideale, con le case ben separate dai posti di lavoro, e ampie zone riservate al verde. Inoltre, negli anni ‘40, Le Corbusier sviluppa una nuova unità di misurazione chiamata Modulor. La lunghezza del Modulor e dei suoi multipli si rifà alle proporzioni del corpo umano. Il Modulor serve per realizzare edifici a misura d’uomo. Viene ricordato - assieme a Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius e pochi altri - come un maestro del Movimento Moderno. Pioniere nell'uso del cemento armato per l'architettura, è stato anche uno dei padri dell'urbanistica contemporanea. Membro fondatore dei Congrès Internationaux d'Architecture moderne, fuse l'architettura con i bisogni sociali dell'uomo medio, rivelandosi geniale pensatore della realtà del suo tempo.

 Egli pubblicò quasi 54 libri e opuscoli dedicati alle sue idee relative all'architettura, l'urbanistica, il design e l'arte. Un elenco completo dei libri si trova nella sezione relativa alla bibliografia del Sito della Fondation Le Corbusier.

CURIOSITA’

1) Da qualche corrispondenza privata emergono le sue idee fasciste, antisemite, razziste e una grande ammirazione per Hitler. Negli anni Venti avrebbe aderito al Partito fascista francese e fondato due riviste insieme al presidente Pierre Winter, di cui era amico.

2) Nel 1929 Le Corbusier ebbe una relazione con la ballerina e cantante Josephine Baker, nel  1930 sposò la modella tedesca Yvonne Gallis , a questa gli proibì di parlare di architettura a tavola. Le Corbusier la tradì più volte ma quando morì, nel 1957, salvò dalla cremazione una sua vertebra e la portò sempre con sé, in tasca o sulla scrivania.

3)  Salvador Dalì, di lui disse che i suoi edifici erano «i più brutti e inaccettabili al mondo» e addirittura che la sua morte lo riempiva di gioia.

4)  La tomba in cui Le Corbusier è sepolto con la moglie Yvonne, a Roquebrune Cap Martin.

5) Pierre ed Eugenie Savoye, i committenti della Ville Savoye, gli scrissero più volte per lamentarsi: «Piove nel salone, sulla rampa, e il muro del garage è totalmente zuppo», e la casa era talmente piena di umidità e perdite che non ci si poteva abitare.

6) Il ricco collezionista Raoul La Roche aveva appeso quadri in una zona della casa che per lui doveva restare sguarnita.

7) La Roche dovette anche sopportare lo sforamento del budget, finestre che non funzionavano e grossi problemi di illuminazione.

8) Tra gli scontenti anche i genitori per loro progettò una casa talmente costosa che dovettero venderla. Gliene costruì un’altra che aveva molte perdite e problemi di riscaldamento, sua madre gli scrisse numerose lettere per lamentarsi di quella che aveva progettato per loro. 

 


CADUTI  GRANDE GUERRA

Decorazioni al valor militare: medaglie d'oro

Su 312 decorati, ben 12 appartengono alla Calabria:

5 alla provincia di Cosenza - 3 alla provincia di Catanzaro - 3 alla provincia di Reggio Calabria 

1 alla bandiera


IL coefficiente artistico in sintesi è un valore aritmetico che aiuta a determinare il prezzo di mercato di un’opera pittorica fotografica ecc.

Il prezzo di mercato di un’opera, si calcola sommando la base maggiore più la base minore espresse in millimetri per il coefficiente artistico che varia da 1 a 10

 

Esempio.

 

 Supponiamo di avere un quadro di dimensioni 500 x 800 mm ed un coefficiente 2

 

 500 mm + 800 mm = 1.200 * 2 (coefficiente) = €2.600,00 (prezzo)

 

Da precisato trattasi comunque di una quotazione indicativa.

 

Da tener conto una serie di elementi per stabilire il giusto prezzo di un’opera, esempio: epoca, qualità, soggetto, numero di mostre di cui l’artista ha partecipato, segnalazione su cataloghi cui si è partecipato, se si è presenti su mostre permanenti in musei ecc.

Il coefficiente del gallerista di comune accordo con l’artista, sulla base del curriculum vitae.


 

Il Medioevo è un periodo di circa 10 secoli il cui inizio si ha con il crollo dell'Impero Romano  d'Occidente, nel 476 e si conclude  con la scoperta dell'America nel 1492. Per convenzione il Il Medioevo viene diviso in due parti: Alto Il Medioevo  (dal V secolo fino all'anno 1000) e Basso Il Medioevo  (dall'anno 1000 alla scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo).. Il nome Medioevo significa età di mezzo; infatti esso sta tra la storia antica e la storia moderna. Il 476 è l'anno della deposizione dell'ultimo imperatore romano: Romolo Augusto  a opera del generale barbaro Odoacre e dell'inizio delle invasioni barbariche, cioè di quei popoli che dalle regioni d'oriente si avviarono verso l' Europa.I Romani chiamavano barbari tutti i popoli stanziati fuori del "limen",cioè del confine dell' impero. Dopo la caduta dell'Impero, l'Occidente attraversò una grave crisi.

I territori che erano appartenuti all'impero vennero conquistati da varie popolazioni barbariche e nacquero i regni romano-barbarici.

L'Impero Romano d'Oriente, invece, sopravvisse fino al 1453.

Questo impero è chiamato anche bizantino da Bizanzio, antico nome greco di Costantinopoli, la capitale dell'impero.La società medievale era strutturata in tre ordini: il clero, i nobili e i contadini.

Ogni ordine aveva proprie leggi e regole da rispettare, ma tutti credevano essere votate a Dio.

Il clero pregava, i nobili (tutti guerrieri) combattevano e di contadini lavoravano la terra per i loro padroni.

Dopo l'anno mille si formò una nuova classe sociale, la borghesia, che era formata: da mercanti, banchieri, avvocati, medici, artigiani. Fu un periodo drammatico di sconvolgimenti, di guerre, carestie e malattie, che portarono ad un pauroso calo demografico.

Fu in questo periodo che si diffuse la terribile epidemia di peste nera..

Fu il più grande episodio pandemico attestato nella storia dell’umanità, che provocò in pochi anni la morte, solo in Europa,di decine di milioni di persone.L’evento fu cosi devastante che l’intero assetto sociale, economico e politico dell’Europa alla fine del  Medioevo ne fu modificato per sempre.

Diminuendo la popolazione diminuirono le terre coltivate e molte delle tecniche agricole utilizzate dai Romani furono dimenticate: i prodotti, erano appena sufficienti a sfamare gli uomini; i commerci si arrestarono quasi completamente.

Con l'avanzata dei barbari le città si spopolarono: Molti le abbandonavano, perché erano la prima meta dei barbari; aumentò l’analfabetismo per la chiusura delle scuole.

Il lavoro nei campi, era improduttivo per l'inclemenza del tempo: le continue gelate e piogge facevano marcire il raccolto. Con la frammentazione dell'Impero Romano,  e la conseguente nascita di piccoli feudi,

indipendenti tra loro e spesso in lotta, la Chiesa rimase intatta nella sua autorità e anzi prese le redini della drammatica situazione, unendo il potere spirituale a quello temporale.

In questo periodo nacquero e si diffusero i monasteri,

di il più importante fu quello fondato da San Benedetto da Norcia che, stabilitosi a Montecassino, formulò "La Regola" o Regola benedettina, in latino denominata "Sancta Regula" che, in estrema sintesi, prescrive una vita comunitaria con un tempo per la preghiera alternato ad uno per il lavoro e lo studio (il celebre motto "Ora et Labora")I monaci benedettini si occupavano anche di diffondere il cristianesimo nelle campagne, in parte ancora pagane e furono punto di riferimento della cultura.

E' per opera di questi infaticabili monaci, infatti, se molte opere antiche sono arrivate fino a noi.

Questi monaci vivevano molte ore della giornata nel silenzio dello "Scriptorium", (una particolare stanza

presente in alcune strutture religiose, in posizione tale da catturare più luce possibile, utile durante il processo di copiatura degli antichi codici.

A coloro che svolgevano questo lavoro era permesso saltare alcune ore canoniche di preghiera. Durante il  XIV secolo e il XV secolo, l'arte della copia degli antichi testi raggiunse il suo culmine. I libri, infatti, dopo essere stati copiati dagli amanuensi, erano controllati sul piano grammaticale e ortografico dai correctores per poi essere miniati dai miniatores. Allo scopo di dimezzare i tempi di produzione, un codice talvolta veniva dato da trascrivere dividendolo fra due amanuensi: ciascuno ricopiava

la metà affidatagli e poi le due copie venivano riunite. Questo sforzo collettivo appare ancora più evidente

per i grossi codici di lusso che richiedevano anche l'intervento dei miniatori, i quali entravano in gioco solo dopo che l'opera era stata completamente ricopiata dagli amanuensi.

L'Impero rinacque, anche se in forma diversa, grazie a Carlo Magno, re dei Franchi, che restaurò un regno unitario chiamandolo: Sacro Romano Impero.

Ben presto però, esso entrò in conflitto con il Papato poiché entrambi ambivano ad esercitare il potere universale sulla cristianità d'occidente.

L'impero era vasto quindi Carlo Magno si avvalse di uomini fidati per amministrarlo:

vassalli che, in cambio della loro fedeltà,

ricevevano una porzione di territorio: il feudo. Intorno all'anno mille iniziò la decadenza dell'impero carolingio, Carlo Magno  indebolito e lontano per conquiste, perse il controllo sui territori ed i potenti locali

si impadroniscono dei feudi più grandi facendoli diventare ereditari.

Nel frattempo la Chiese viveva forse il suo periodo peggiore.

E' in questo periodo, infatti, che iniziarono le crociate, cioè le guerre fra l'Occidente cristiano e l'Oriente musulmano.

Il papato assoldò un esercito, che divenne nel tempo sempre più potente, al fine di portare il cristianesimo nelle terre dell'Islam al fine di liberare la Terra Santa dai turchi, tuttavia l'esito non fu dei migliori, dopo una prima vittoria della Chiesa, il territorio tornò sotto il dominio mussulmano. Intanto in Italia i contrasti fra Chiesa e Impero continuavano e divennero sempre più importanti; nacquero due fazioni i Guelfi (sostenitori del Papato) e i Ghibellini (sostenitori dell'Impero).

È da queste due fazioni che nasceranno poi le rivalità ed i campanilismi che tutt'ora ritroviamo nelle città più antiche. Intorno al XV secolo abbiamo i segni della fine del Il Medioevo infatti i livelli culturali, politici e sociali erano talmente radicati da non poter più parlare di "un'epoca oscura".

 

Iniziano ad effettuarsi i primi viaggi alla scoperta di nuove terre e nel 1492 con la scoperta dell'America, il Medioevo è definitivamente concluso.


Gioacchino da Fiore

Gioacchino da Fiore apparteneva all’Ordine di Sion, e progettò la Basilica di San Marco a Venezia ispirandosi al Tempio di Salomone. Ne fece fare a Reggio un primo “modello” dalla scuola orafa della Sambucina. Vicino al Teatro della Fenice gli è intitolata una chiesa, “Chiesa di San Fantin Cavaliere e Calabrese”.

  La leggenda cavalleresca di Lancillotto e del Graal è ispirata ai principî del “Vangelo Eterno” di Gioacchino. E Gioacchino incontrò a Messina Riccardo Cuor di Leone in partenza per le Crociate..

Il primo romanzo graaliano si deve a Chrétien de Troyes; a Troyes si tenne il Concilio che sancì la nascita dell’Ordine del Tempio; un cofanetto del XII Secolo, proveniente da quella città, raffigura la chiesa dell’Annunziata di Reggio. (Di Troyes era pure originario Hugues de Payns, il fondatore dei Templari.)

 

Il miracolo eucaristico di Sant’Erasmo, che ha collegamenti con i “codici” di Gioacchino da Fiore, è praticamente identico all’apparizione del Graal a Sir Galvano descritta nel “Perlesvaus”, di autore curiosamente anonimo, opera che poi ispirò il celebre “Parzival” di Wolfram von Eschenbach. Quest’autore identifica il luogo della rivelazione del Graal a Galvano in “Pietracoppa” (oggi “Pietra Cappa”, foto a dx), un gigantesco masso simile a una sfinge egizia, nei pressi di Samo (centro della Riforma Valdese del 1500: fu in questa cittadina, e non nell'omonima città greca, che nacque Pitagora?), sulla cui sommità sorgeva una chiesa bizantina.


 

Per l'art. 3 del R.D. 7 giugno 1943, n. 651 (l'ultimo Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano), i titoli nobiliari sono in ordine decrescente: Principe, Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Nobile, nonché Signore, Cavaliere Ereditario, Patrizio e Nobile di determinate città. Per il secondo comma del medesimo articolo 3, a partire dal 1943, tali ultimi titoli non potevano essere più concessi ma soltanto riconosciuti agli aventi diritto se derivanti da antiche concessioni governative emanati nel periodo monarchico e nel periodo repubblicano contengono dei riferimenti ad esso che è indicato come “il nome di antico feudo o possesso territoriale che si unisce al titolo”. Più precisamente, il predicato nobiliare può essere definito come un particolare attributo che può essere aggiunto ad un titolo nobiliare o ad un cognome al fine di meglio specificarlo; esso consiste nella preposizione segnacaso “di”, seguita dall’appellativo di una località geografica. Tuttavia chi risiede in italia e ha origini antiche con un casato nobile deve fare riferimento alla Costituzione della Repubblica Italiana che non ha abolito o soppresso i titoli nobiliari ma li ha semplicemente disconosciuti. Come ha ritenuto la Corte di Cassazione con sentenza del 16 luglio 1951, ciò significa che la Costituzione non pone alcun divieto all'uso pubblico o privato dei titoli nobiliari da parte di chi ne sia investito, ma il non riconoscimento vale come divieto solo nei confronti dei pubblici ufficiali, i quali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati.  

La XIV disposizione transitoria della Costituzione repubblicana recita: “i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (...) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica”. 

Tale norma, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, non rappresenta una novità sul piano giuridico, il principio in essa espresso, infatti, si trova riconosciuto in altre Costituzioni moderne; in quella tedesca di Weimar: "i titoli nobiliari valgono solamente come parte del nome e non dovranno esserne conferiti di nuovi"; in quella irlandese del 1937 che impedisce la concessione di nuovi titoli nobiliari; in quella cecoslovacca: "i titoli non devono essere accordati che per designare l'impiego o la professione". 

Essa ha posto nella nostra legislazione due precetti innovativi: l'uno di portata negativa, e cioè il disconoscimento dei titoli nobiliari; l'altro di portata positiva, e cioè la "cognomizzazione" dei predicati già connessi ai titoli nobiliari. 

Riguardo al primo aspetto (del secondo ci occuperemo nella sezione specificamente dedicata ai predicati nobiliari), la Costituzione della Repubblica non ha abolito o soppresso i titoli nobiliari ma li ha semplicemente disconosciuti. Come ha giustamente ritenuto la Corte di Cassazione con sentenza del 16 luglio 1951, ciò significa che la Costituzione non pone alcun divieto all'uso pubblico o privato dei titoli nobiliari da parte di chi ne sia investito il non riconoscimento vale come divieto solo nei confronti dei pubblici ufficiali, i quali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati. In altre parole, la Costituzione ha posto "fuori" dall'ordinamento giuridico italiano i titoli nobiliari: il loro uso è indifferente di fronte allo Stato, il quale, non riconoscendoli, non accorda ad essi la sua protezione. 

Sotto l'impero dell'attuale Costituzione, dunque, nessun organo statale, sia amministrativo sia giudiziario, potrà ulteriormente attribuire ufficialmente titoli nobiliari, nè gli aventi diritto avranno la facoltà di esperire un'azione giudiziaria diretta, in via principale, ad ottenere una sentenza "accertativa" della spettanza di un titolo nobiliare. 

Poiché, dunque, l'ordinamento giuridico italiano “disconosce” i titoli nobiliari ed il loro uso è indifferente per lo Stato italiano, l'uso di un titolo nobiliare di pura fantasia, cioè mai concesso all'utilizzatore da parte di alcuna fons honorum, non potrà essere sanzionato da alcun organo statale; d'altra parte nessuna norma vieta l'uso di tali titoli, non configurando tale comportamento alcun illecito, neanche di tipo penale. 

Simili conclusioni valgono anche per i titoli nobiliari di nuova concessione, cioè quei titoli che derivano da quelle fons honorum che ancora oggi concedono titoli nobiliari con o senza predicato. 

Ma se nessun illecito è configurabile a carico di chi conferisca od usi tali titoli, la questione dei titoli nobiliari di nuova concessione è un po' più complessa sotto il profilo del diritto nobiliare.

Con riferimento alla prerogativa di conferire titoli nobiliari, è necessario precisare che la sovranità comprende: lo jus imperii, cioè il diritto al comando politico; lo jus gladii, cioè il diritto al comando militare; lo jus majestatis, che è il diritto al rispetto ed agli onori del rango e lo jus honorum che è il diritto a premiare i sudditi con titoli nobiliari, decorazioni e privilegi. 

Per una certa dottrina (FURNO'; PENSAVALLE DE CRISTOFARO) il Sovrano perderebbe tutte queste prerogative allorquando subisca una capitolazione sotto forma di abdicazione, rinuncia, vassallaggio o acquiescenza al nuovo ordinamento politico (debellatio). Qualora viceversa il Sovrano venga estromesso dal dominio sul proprio territorio in assenza di un atto abdicativo o comunque di acquiescenza al nuovo ordinamento politico, egli subirebbe una perdita dello jus imperii e dello jus gladii ma manterrebbe del tutto intatti lo jus majestatis e lo jus honorum. Il Sovrano spodestato, non debellato, conserverebbe pertanto oltre al diritto di pretenzione al trono, quello di conferire titoli nobiliari, oltre che decorazioni e distinzioni cavalleresche. 

Viceversa, per altra illustre dottrina (MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Milano, 1961, vol. III, pp. 313 e segg.), dal punto di vista del diritto nobiliare, “la concessione di titoli nobiliari, pur essendo una prerogativa regia, si esplica sempre in funzione della sovranità della quale il Capo dello Stato è costituzionalmente investito (...). Sembra, al riguardo, irrilevante il fatto che il Monarca abbia oppure no abdicato”. 

I titoli nobiliari sono indicati all’art. 3 del R.D. 7 giugno 1943, n. 651 (l'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare) e sono in ordine decrescente: Principe, Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Nobile, nonché Signore, Cavaliere Ereditario, Patrizio e Nobile di determinate città. Per il secondo comma del medesimo articolo, a partire dal 1943 tali ultimi titoli non potevano essere più concessi ma soltanto riconosciuti agli aventi diritto se derivanti da antiche concessioni. In effetti i titoli di Visconte, Signore e Cavaliere Ereditario, non vennero mai conferiti dai Re d'Italia dopo l'unificazione.

Gli Ordinamenti del 1929 e del 1943 accolsero e codificarono il principio dell'esclusione della successione per linea femminile, già abolita per effetto del R.D. 16 agosto 1926, n. 1498.

Senza entrare nel merito delle norme contenute nel R.D. 1498/26, è da segnalare che l’ultima legge nobiliare del Regno d’Italia ribadì il principio, già espresso in detto Decreto, della successione per linea maschile: “le successioni dei titoli, predicati e attributi nobiliari hanno luogo a favore della agnazione maschile dell’ultimo investito (…); i titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono per linea femminile” (art.40 R.D. 651/43).

Tale principio valeva per tutti i titoli, anche per quelli concessi sia ai maschi sia alle femmine: “i titoli, i predicati, le qualifiche o gli stemmi nobiliari concessi oltre che ai maschi anche alle femmine, spettano durante lo stato nubile alle medesime, qualunque sia la loro posizione in linea e non danno luogo a successione;” (art. 43, primo comma) “nello stato matrimoniale esse non possono farne uso se non applicando il titolo nobiliare al cognome di nascita preceduto dal qualificativo <nata>”(art. 43, secondo comma). Per esempio, se il Conte Rossi avesse avuto due figli, un maschio ed una femmina, al maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso ai suoi discendenti, mentre alla femmina sarebbe spettato il titolo di Contessa ma solo durante il nubilato; una volta sposata, essa avrebbe potuto farne uso solo specificando il cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata e, comunque, il titolo non si sarebbe trasmesso ai suoi figli. 

I titoli concessi o riconosciuti come trasmissibili per primogenitura maschile si trasmettevano solo in favore del primogenito maschio:“agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali, è attribuito, oltre alla semplice nobiltà, il diritto di aggiungere al cognome l’appellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso <dei>” (art. 43, terzo comma). Se per esempio il Conte Rossi (titolo primogeniale) avesse avuto tre figli, solo al primogenito maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti. Generalmente tale forma di trasmissione, era prevista per i titoli di origine feudale muniti di predicato. Nel qual caso, riprendendo in parte l'esempio precedente, solo al maschio primogenito del Conte Caio Rossi di Villaverde, sarebbe spettato il titolo di Conte di Villaverde e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti di Villaverde.

In relazione a tale forma di successione, al fine di risolvere ogni possibile dubbio interpretativo, l'art. 13 disponeva che: “nel caso di parto plurimo si considera primogenito il primo venuto alla luce” (art. 13). 

Altro principio generale del diritto nobiliare era che i titoli ed i trattamenti nobiliari si trasmettevano solo attraverso la filiazione legittima e naturale. Le disposizioni anteriori all’unificazione che prevedevano, in via eccezionale, in mancanza di discendenti legittimi, la successione a favore dei figli naturali riconosciuti e dei figli adottivi, vennero abrogate dal R.D. 16 agosto 1926, n. 1489. Anche le investiture contenute nelle Lettere Patenti di concessione, fissavano generalmente la devoluzione dei titoli ai “discendenti legittimi e naturali”. In detta espressione, alla copulativa e, doveva essere dato un valore congiuntivo e non disgiuntivo, essendo chiamati a succedere solo i discendenti che fossero ad un tempo legittimi e naturali. Questo è il principio che fu accolto nell'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare. 

Pertanto, furono esclusi dalla successione nobiliare innanzitutto i figli adottivi che sono legittimi ma non naturali (art. 42, R.D. 651/43), salva ovviamente la possibilità di un provvedimento di grazia sovrana (rinnovazione, nuova concessione a loro favore, espressa previsione della loro successione nell'atto di concessione del titolo dato a favore dell'adottante). Tale regola si giustificava con il voler evitare il pericolo che tale forma di successione nei titoli fosse utilizzata per attuare un commercio simulato dei titoli stessi, rimanendo la collazione dei titoli nobiliari una prerogativa esclusiva della Corona, con esclusione di ogni successione sia per atto tra vivi (tra cui figurava l'adozione), sia per atto di ultima volontà. 

Inoltre, furono esclusi gli spurii, che sono naturali ma non legittimi (art. 41, primo comma, R.D. 651/43). I figli naturali, ancorché riconosciuti, non succedevano nei titoli e predicati nobiliari a meno che non venissero legittimati per susseguente matrimonio o per Decreto Reale. 

La legittimazione per susseguente matrimonio, in ossequio al principio accolto dal diritto canonico e feudale, produceva effetto ex tunc cioè dal giorno del concepimento. Vi era una fictio iuris per la quale l'effetto del matrimonio era riportato al giorno del concepimento, ponendo così in un piano di parità i figli nati dopo il matrimonio con quelli nati prima di esso: “i figli legittimati per susseguente matrimonio succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi” (art. 41, secondo comma R.D. 651/43). La legittimazione per subsequens, dunque, metteva i figli nella medesima condizione in cui si sarebbero trovati se nati in costanza di matrimonio. 

Poteva accadere però che il riconoscimento non avvenisse all'atto stesso del matrimonio, ma in un momento successivo, dopo la sua celebrazione. Tale ipotesi era regolata dalla seconda parte del medesimo comma dell'art. 41 del per il quale: “gli effetti della legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento è posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento”. L'applicazione di tale principio produceva particolari conseguenze allorquando si fosse trattato di un titolo trasmissibile per primogenitura. Qualora, infatti, il riconoscimento fosse stato posteriore al matrimonio, la legittimazione non avrebbe retrodatato la nobiltà del legittimato al giorno della nascita (come nel caso di riconoscimento contestuale e all'atto di matrimonio), ma le avrebbe dato principio solo dall’atto della legittimazione stessa. E nel caso di concorrenza tra figli legittimi e figli legittimati, la preferenza nella successione al titolo sarebbe stata determinata dall’anzianità nel possesso della condizione di legittimità e non dall’anzianità di età.

Come detto la XIV disp. trans. della Costituzione ha posti fuori dal mondo giuridico i titoli nobiliari ed ha implicitamente abrogato tutta la passata legislazione araldica. Ma se le norme contenute nell'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare italiano non hanno più alcun valore giuridico, ben possono – anzi a mio avviso devono -- essere ritenute ancor oggi valide come consuetudine sociale-nobiliare. Esse sono il necessario punto di riferimento per porre ordine nella complessa materia della trasmissione dei titoli nobiliari. 

E applicando i principi espressi nell'Ordinamento del 1943 si possono notare le seguenti importanti conseguenze pratiche.

I titoli nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atto tra vivi o di ultima volontà. 

La successione nei titoli nobiliari non si attua in linea femminile: i titoli concessi ai maschi ed alle femmine spettano a queste ultime solo per il periodo del nubilato e non danno luogo a successione.

Mentre oggi per il diritto civile i figli gli adottivi, i legittimati per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice ed i naturali riconosciuti anche giudizialmente, sono parificati anche ai fini successori ai figli legittimi, la trasmissione dei titoli nobiliari non si attua in favore dei figli adottivi e dei figli naturali anche se riconosciuti. Ai fini nobiliari, ai figli legittimi sono equiparati solo quelli legittimati per susseguente matrimonio. L'equiparazione relativa ai figli legittimati per Decreto del Capo dello Stato, previe Lettere Patenti di Regio Assenso al passaggio del titolo, è evidentemente un ipotesi oggi non più realizzabile nell'attuale carenza di un siffatto Potere Sovrano: il codice civile attuale prevede all'art. 284, la legittimazione per provvedimento del giudice, ma mancherebbe comunque la possibilità di ottenere un provvedimento di Assenso Sovrano.

In riferimento ai rapporti tra coniugi, l’art. 143 bis del Codice Civile stabilisce che: “la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. In tema di titoli nobiliari, in caso di matrimonio, la donna maritata non può usare il titolo nobiliare della propria famiglia d'origine applicandolo al cognome del coniuge che ha assunto in seguito al matrimonio. Il titolo potrà essere usato dalla donna maritata solo applicando il titolo stesso al cognome di nascita preceduto dal qualificativo “nata”: ad esempio: Caia Rossi, nata contessa Bianchi. Tuttavia la donna maritata può assumere il titolo nobiliare del marito, eventualmente aggiungendolo al proprio; perde il titolo nobiliare maritale a seguito di annullamento del matrimonio, nonché a seguito di divorzio ma non a seguito di vedovanza: “la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la conserva anche durante lo stato vedovile” (art. 12 R.D. 651/43). Contrariamente, non è consentito al marito di donna titolata usare maritali nomine titoli della moglie vivente o defunta (art. 47 del R.D. 651/43); usanza un tempo diffusa soprattutto nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie. 

Infine, in tema di cognome: “l’assunzione, l’uso e la trasmissione di un cognome, neppure in caso di adozione, implicano il conseguimento dei titoli e degli attributi nobiliari ad esso connessi” (art. 50 del R.D. 651/43). Al fine di evitare anomale forme di successione di titoli nobiliari, anche tale disposizione deve ritenersi tutt'oggi valida con riferimento alle ipotesi di aggiunzione di cognome, come regolate dal D.P.R. 396/2000. Si evidenzia inoltre che, mentre i titoli si trasmettono secondo le norme illustrate in precedenza, il cognome o i cognomi si trasmettono viceversa secondo le regole proprie del nome, cioè alla moglie ed a tutti i figli maschi, femmine, legittimi, legittimati, naturali riconosciuti e adottivi. Ciò vale anche per i predicati nobiliari cognomizzati ai sensi della XIV disposizione transitoria della Costituzione che appunto seguono le vicende ed i modi di successione del cognome.

 

 


I TEMPLARI 

 

L' ordine monastico cavalleresco dei Templari e l'ordine dei monaci Cistercensi, sono accomunati tra loro dalla figura di San Bernardo di Chiaravalle, promotore e sostenitore del primo, per il quale scrisse la Regola, e massimo esponente del secondo. 

 

I TEMPLARI 

I Templari furono un ordine monastico-cavalleresco (cioè erano allo stesso tempo monaci e soldati) fondato nel 1119 da Hugues de Payens, insieme ad altri otto confratelli, a Gerusalemme. Venti anni prima, il 15 luglio del 1099, i principi che avevano sottoscritto la Prima Crociata, indetta da papa Urbano II, avevano riconquistato Gerusalemme sottraendola ai Saraceni. Il principe Baldovino di Fiandra, fratello di Goffredo di Buglione, divenne primo re di Gerusalemme col nome di Baldovino I. La Terrasanta, però, continuava a rimanere terreno pericoloso per i frequenti scontri con i Saraceni che premevano per riprendersi il Santo Sepolcro, così, secondo le fonti storiche ufficiali, nacque l'idea della costituzione di un ordine militare per la protezione e la difesa armata dei pellegrini, organizzata internamente come un ordine monastico. Baldovino, il patriarca di Gerusalemme e tutto l'alto clero appoggiarono l'impresa e il re concesse loro di occupare le vaste scuderie ricavate nei sotterranei della Grande Moschea di Al-Aqsa, costruita sul luogo dove un tempo sorgeva il Tempio di Salomone. Per tale motivo, il gruppo neoformato cominciò ad essere chiamato "Cavalieri del Tempio" e quindi Cavalieri Templari. In realtà come ordine monastico vero e proprio venne approvato soltanto nel 1128, con il Concilio di Troyes, tenutosi sotto il pontificato di papa Onorio II. A spingere il papa, ancora restio all'idea che un monaco potesse essere abilitato a spargere sangue, a concedere loro il riconoscimento ufficiale fu San Bernardo di Chiaravalle, allora massimo esponente dell'ordine dei Frati Cistercensi, che redasse per loro una Regola specifica mutuata da quella dei suoi confratelli. Innocenzo II, che doveva a San Bernardo l'elezione al soglio pontificio, concesse loro nel 1139 una prima serie d'importanti privilegi. Infine Eugenio III, nel 1147, concesse ai Templari, che già indossavano il mantello bianco, l'autorizzazione ad aggiungervi una croce rossa. 

 

I CISTERCENSI

Il 21 marzo 1098, equinozio di Primavera e festa di san Benedetto e, in quell'anno, anche Domenica delle Palme, ventuno monaci, con a capo l'abate Roberto di Champagne, lasciarono il monastero di Molesme per fondare, nella Borgogna francese, 20 chilometri a Sud di Digione, un nuovo insediamento monastico, che fu chiamato "Nuovo Monastero". Come sede per il suo ordine, Roberto scelse un luogo solitario chiamato Cistercium (da cui derivò la denominazione dell'Ordine), l'odierna Cîteaux, e cominciò a seguire un rigido stile di vita più consono alle regola benedettina originale, il cui senso era stato fortemente alterato a Molesme. Oltre a Roberto, un notevole contributo al buon esito dell'operazione venne dato da altri due religiosi, Alberico e Stefano, considerati co-fondatori dell'Ordine. Alberico, infatti, ottenne la concessione della protezione apostolica su Cîteaux dal papa Pasquale II con la bolla "Desiderium quod" dell'aprile 1100, che assicurava al Nuovo Monastero assoluta indipendenza da Molesme. Stefano si preoccupò di conservare lo spirito del rinnovamento cistercense promovendo disposizioni tese alla salvaguardia della povertà e della quiete monastica.

Nel XII secolo, grazie anche ai contributi di San Bernardo, l'Ordine era diventato quasi una potenza temporale per l'estensione delle sue proprietà e per la sua influenza, conquistate grazie alla capacità di adattamento e di valorizzazione del propri beni. Questa agiatezza, in seguito, diventerà la causa della loro decadenza. In questo periodo, comunque, nascono le più grandi ed importanti abbazie cistercensi, in Italia, ma soprattutto in Francia, dove vengono costruite 11 cattedrali gotiche dedicate a Nôtre-Dame, le cui ubicazioni, segnate su una carta geografica, formano, curiosamente, il disegno della costellazione della Vergine:Dal XIII secolo, con il diminuire del reclutamento, è necessario ricorrere ai canoni di affitto per continuare a beneficiare dei terreni e, poco a poco, si prende l'abitudine di vivere non più del lavoro delle mani, ma delle rendite delle proprietà dei monasteri. Tuttavia, malgrado la nascita degli Ordini mendicanti, quello cistercense continuerà la sua espansione e, all'inizio del XIV secolo, comprenderà 725 case di monaci.

Il XIV e il XV secolo saranno difficili da vivere per tutta l'Europa, compresi i monaci Cistercensi; i "grandi" di questo mondo confiscano i beni ecclesiastici, i conflitti armati si allargano a tutta l'Europa, le grandi epidemie diffondono, dappertutto, i loro danni; infine, la nascita dell'Umanesimo contribuisce, da parte sua, al crollo della società medioevale, mentre nuove correnti spirituali si sviluppano in modo informale e danno vita a dei gruppi come quelli delle "Beghine" e dei "Begardi" che vivono nelle città e si dedicano alla meditazione e alle opere di carità.

Nel XVI secolo non figura nessuna nuova fondazione, ma la Riforma metterà in atto la scomparsa irreversibile di più di 200 monasteri, mentre la maggior parte degli altri saranno devastati. Nello stesso periodo compare il sistema commendatario che indebolisce l'Ordine monastico e non permette di prendere misure di risanamento in campo disciplinare o economico. La difficoltà dei tempi rende ardua la partecipazione ai Capitoli Generali. È nel XVI secolo che si affermano maggiormente le congregazioni nell'Ordine. Si tratta di monasteri che appartengono a una stessa regione e sottomessi a una medesima autorità politica e i cui superiori si riuniscono in Capitolo Generale, a intervalli regolari. Seguendo le decisioni del Concilio di Trento, che ha richiamato con fermezza ai religiosi e alle religiose i loro doveri e impegni, comincia un grande movimento di ripresa e nasce un vivo desiderio di ritorno al fervore primitivo, particolarmente nei monasteri della filiazione di Clairvaux. In questo periodo nasce l'Ordine Cistercense della Stretta Osservanza (O.C.S.O.). La riforma venne attuata soprattutto grazie all'opera di Armand-Jean le Bouthillier de Rancé, abate di Nôtre-Dame de la Trappe, una delle più antiche abbazie cistercensi. Per tale motivo, i Cistercensi dell'O.C.S.O. sono anche comunemente conosciuti come frati Trappisti.

Il XVIII secolo, con l'Illuminismo, offre un quadro diversificato dell'Ordine: certe case sono ferventi e hanno un reclutamento soddisfacente; altre, molto più numerose, hanno solamente un numero ridotto di monaci che assicurano un minimo di vita comune nelle costruzioni, spesso immense, che danno l'illusione di una grande prosperità. In Germania e nell'Impero Austro-Ungarico è il periodo della grande fioritura del Barocco, ma è anche il periodo del "giuseppinismo", nel corso del quale, per sfuggire alla chiusura di cui sono minacciati, i monasteri accettano delle attività annesse e, fino ad allora, poco praticate dai Cistercensi: parrocchie, scuole, e così via. È in questo contesto che scoppia la Rivoluzione Francese, la quale giungerà alla decisione della soppressione di tutti i monasteri. I monaci sono espulsi, alcuni di essi moriranno martiri nei barconi, i beni conventuali sono confiscati e venduti dallo Stato. Gli eserciti della Rivoluzione e, in seguito, quelli dell'Impero generalizzano il movimento nell'intera Europa, tra il 1789 e il 1810. In questo contesto, estremamente difficile, c'è tuttavia, un gruppo di monaci dell'Ordine che sotto la guida di Agostino de Lestrange, maestro dei novizi della Trappa nel 1789, vivendo una lunga "odissea" che li condurrà sino alla Russia, riesce a tenere viva la vita cistercense in un certo numero di fondazioni, sparse in tutta l'Europa. Dalla restaurazione della monarchia francese - 1815 - alcuni membri di questo piccolo gruppo, riprendono la vita monastica (in Francia e Belgio) e danno origine a una nuova rinascita monastica caratterizzata da una grande generosità, da un intenso fervore spirituale. Questo rinnovamento si attua malgrado una grande precarietà materiale ed è segnato da un senso profondo dell'ascesi e della riparazione degli abusi commessi dalla Rivoluzione Francese. In altre parti d'Europa la situazione è diversa. I monasteri dell'Ordine riprendono vita in Austria, Ungheria e Italia, mentre in Spagna, Portogallo e Svizzera sono vittime di politiche settarie - conseguenze tardive della Rivoluzione Francese - e spesso costretti alla chiusura.

Nel 1892, sotto il pontificato di Leone XIII, la maggior parte dei monasteri situati in Francia e in Belgio, quelli usciti dall'"odissea" di cui si è parlato, si raggruppano e formano "L'Ordine Cistercense di Nostra Signora della Trappa", mentre gli altri monasteri cistercensi, raggruppati in diverse congregazioni formano "Il Sacro Ordine di Cîteaux". Nel 1898, in occasione dell'ottavo centenario della loro fondazione, i Cistercensi riformati hanno la possibilità di riscattare l'abbazia di Cîteaux e di farvi rifiorire una comunità. La fine del XIX secolo e il XX secolo sono stati un periodo di persecuzione per i monasteri cistercensi che devono vivere delle ore difficili in Francia e che sono vittime di totalitarismi che colpiscono tutta l'Europa dell'Est e l'Estremo Oriente, causando la soppressione di molti monasteri e provocando la testimonianza di numerosi martiri della fede. Nel 1995 i due ordini monastici l'Ordine Cistercense e l'Ordine Cistercense della Stretta Osservanza si condividono il giusto titolo di Cîteaux. A questi due rami si ricongiungono diverse famiglie religiose di ispirazione cistercense. L'Ordine Cistercense comprende 12 congregazioni che raggruppano in totale 77 monasteri di monaci e 63 monasteri di monache (1014 monaci e 966 monache nel 1993). 


VIAGGI IN TERRA SANTA

Questi sono i viaggi che debbono fare li pellegrini che vanno Oltramare per salvare l'anima loro e che può fare ciascuna persona stando nella casa sua, pensando in ciascuno luogo che di sotto è scritto, e in ogni santo luogo dica uno Paternostro e Avemaria.

 

Messere santo Stefano fu alapidato colle pietre in Ierusalem alla porta onde li pellegrini entrano nella città, quando voi andate. Appresso entrerete nella chiesa del Sepolcro, e ivi troverete lo luogo che fu Chiamato monte Calvario, dove lo nostro Signore Iesù Cristo fu posto in croce. Di sotto a monte Calvario troverete Gorgotas, là ove il sangue delle piaghe di Cristo cadde sopra la pietra, e quella pietra si fesse immantinente; e videlo cadere la Vergine Maria, ch'era ivi, e fu molto piena di dolore. E nel coro della chiesa del Sepolcro si è lo luogo dove lo nostro Signore Iesù Cristo fu posto quando si levò della croce, involto in uno pannolino; e ivi si dice nel mezzo del mondo. Anco troverete nel coro della chiesa uno altare di Greci; e ivi apparve Cristo alla Maddalena quando risuscitò Lazaro. E alla entrata del Sepolcro si è la pietra dove stava l'angelo quando disse alle tre Marie che Cristo era risuscitato. E ivi appresso troverete lo monimento dove lo nostro Signore Iesù Cristo fu messo; e su, più alto un poco, troverete la pietra che fu posta sopra lo monimento. Nella chiesa detta sì troverete a mano sinistra il luogo dove Cristo fu messo in prigione. E poi troverete lo luogo, dove santa Elena trovò la croce, dove Cristo fu posto, che era nascosta con quella de' due ladroni che fuoro posti in croce quando Cristo. E appresso troverete la colonna dove fu legato e battuto. E poscia andarete alla chiesa degli Armini, e troverete dove fu tagliato il capo a santo Iacomo. E indi andarete a monte Sion e troverete una chiesa, la prima che troverete; e ivi fu coronato di spine. E appresso entrerete nel monasterio di monte Sion, e troverete la tavola dove Cristo cenò colli suoi apostoli, e ivi lor lavò i piedi. E appresso troverete lo luogo dove Cristo mandò lo Spirito Santo sopra gli apostoli lo dì di pasqua rosata. E poi n'andarete a santo Pietro del gallo canta; e ivi rinegò santo Pietro Cristo tre volte, anzi che 'l gallo cantasse due volte; e ivi si chiama monte Sion. E poi n'andarete alla fontana di Siloe, là dove Cristo alluminò lo cieco. E poi n'andarete nel luogo dove furo dati a Giuda XXX denari, laonde Cristo fu venduto; e detti denari furo fatti a Faeno presso a castello Pellegrino quattro miglia. E indi tornarete e andarete a Templo Domini, e troverete lo luogo dove la Vergine Maria e Ioseppe offersero Cristo.

 

E quivi troverete lo luogo dove Iacob patriarca dormì, e ivi vide l'angelo che saliva e scendeva la scala; e disse l'angelo che quello luogo era santo. E quivi troverete, di sotto nella rocca, lo luogo dove lo nostro Signore perdonò alla femina che fu presa in avolterio, che li Giuderi la menavano per giudicare; e ivi si è lo luogo dove Cristo scrisse in terra col dito. E troverete il luogo dove Cristo si nascose per paura de' Giuderi che 'l volevano uccidare; entro in uno sasso si nascose.

 

E appresso troverete le porte che sono dette Porte di Paradiso. Anco vi troverete lo luogo dove si dice che si odono favellare le anime del Purgatorio. E appresso troverete tre pietre quadre che vi pose Cristo colle sue sante mani. E ivi appresso troverete la catena del giudicamento del mondo. E indi andarete alla pietra cavata, là dove fu battezzato Cristo al fìume Giordano. E quine n'andarete a Porte Armene, dove Cristo cavalcava l'asina, e vedarete le pedate che faceva sopra le pietre. E poi n'andarete a Santa Anna, e troverete lo suo monimento e del suo marito santo Giovachino: e' furo padre e madre della Vergine Maria. E indi andarete alla fontana la quale fu chiamata la Pescarìa Provata, e ivi fece Cristo di uno paralitico stato XXXVIII anni sano e salvo, e disseli: «Tolli lo tuo letto e vattene». Ed indi n'andarete a Gicofas, e troverete lo luogo, dove fu preso Cristo, che si chiama Getsemani, e ivi sudòe Cristo sudore di sangue quando pregava Iddio Padre. E ivi, più suso un poco, troverete là dove Cristo ficcò lo dito nella pietra e dove santo Pietro tagliò l'orecchio al giudeo.

 

E indi appresso andarete a monte Oliveto, e troverete lo luogo dove Cristo scrisse in prima lo Paternostro. E ivi appresso troverete la tomba di santa Palasia; e dicono che dintorno non vi può andare persona che sia in peccato mortale. E ivi di sopra si è il luogo dove Cristo n'andò in cielo il dì della Ascensione. E indi n'andarete in bel fuggire, e troverete il luogo dove santo Pietro e santo Iacomo prese l'asina nella quale Cristo cavalcò, e ivi entrò in Ierusalem la domenica d'ulivo; e ivi troverete le pietre che allora favellaro. E indi n'andarete in Betania, dove Cristo perdonò alla Maddalena; e ivi appresso si è lo munimento dove lo nostro Signore Iesù Cristo risuscitò Lazaro. E ivi appresso troverete lo luogo di santa Marta, dove Lazaro cantò la Messa; e poscia se n'andò Lazaro oltre ' monti in Provenza e fue vescovo di Marsilia. E indi andarete al petrone dove Cristo fu battezzato nel lato al fiume Giordano, e in quello petrone si pose Cristo a sedere. E ivi troverete, appresso a uno spedale, dove il fiume Giordano si li fece incontra, quando vide Cristo. E indi n'andarete là 've il nostro Signore Iesù Cristo fece la quaresima e digiunò quaranta dì e quaranta notti. E indi tornarete in Ierusalem, escirete alla porta da mare e indi n'andarete a Beleem, e troverete il luogo dove Cristo fue nato, e troverete la greppa dove fue messo nella grotta e dove li tre Magi il vennero ad adorare Cristo, e ivi vennero li pastori a vedere e adorare Cristo. E di fuori da Beleem troverete il luogo là 've Cristo apparve agli apostoli. E indi n'andarete a Santo Abraam, e poi tornarete a santo Ioanni del Bosco. E indi n'andarete alla fonte ove il nostro Signore Cristo apparve agli apostoli. E indi tornarete in Ierusalem, e troverete lo luogo ove la verace Croce fue trovata. E appresso n'andarete dove a santo Ioanni Battista fue mozzo il capo. E indi n'andarete in Nazarette, dove la beata Vergine Maria fue nata, e ivi troverete lo luogo dove lo Spirito Santo venne in lei e fu annunziata dall'angelo. E di quine n'andarete in Cana Galilea, ove il nostro Signore fece dell'acqua vino alle nozze di santo Ioanni e della Maddalena. E indi n'andarete là dove la Maddalena si partì, per corruccio ne lasciava lo suo marito, e fuggìo in Babilonia, e ivi fece tutto il peccato che potea fare, siccome peccatrice, e poi si pentì, e Cristo le perdonò. E quindi n'andarete in monte Tabor, e troverete lo luogo dove Cristo trasfigurò agli apostoli. E indi andarete a Santa Maria di Tortosa; e poscia che Cristo nacque, si stette santa Maria madre sua in monte Sion XXII anni, e ivi si è lo luogo ove santa Maria si partì l'anima dal corpo, e gli apostoli la portaro in Ierusalem, e li angeli la portaro in cielo a grande gloria. E poi riandarete in monte Sion, e troverete dove Cristo diè la legge a Moisè, e ivi troverete lo monimento di santa Caterina e 'l suo corpo che n'esce olio. E ivi troverete uno vaso che vi pose la Vergine Maria colle sue mani. E indi n'andarete in Babilonia, e troverete una fontana là dove l'angelo lavò li panni del nostro Signore Iesù Cristo e poseli asciugare su in uno arbore, e di quello arbore esce il balsamo per grazia di Cristo. E indi n'andarete a Santa Maria di Sardinal, oltre Damasco VI miglia. Memoria sia a quelli che fanno lo pellegrinaggio della Santa Terra d'Oltremare, che dal Sepolcro del nostro Signore Iesù Cristo infine a monte Calvario, dove fue posto in croce, si ha L passi; e dal Sepolcro infine là dove disse che era il mezzo del mondo si ha XXV passi.

 

E dal Sepolcro infine là dove fue legato alla colonna e battuto si ha LV passi.

E dal Sepolcro infino là dove egli stette in pregione si ha L passi.

E dalla colonna dove fue battuto infine al luogo dove fue trovata l'altra croce si ha LXV passi.

E dal Sepolcro infine al luogo dove fece il Paternostro si ha XXX passi.

E da Ierusalem fine a Santa Maria di Beleem si ha VI miglia, dove nacque Cristo.

E da Ierusalem infino al fiume Giordano si ha XXX miglia.

E da Ierusalem infino a monte Oliveto si ha duemila passi.

E dal fiume Giordano fine dove Cristo fece la quaresima si ha IV miglia.

E dal fiume inverso il levante si è Terra di Promessione.

Iddio ci conduca a salvazione. Amen.

 

Fonte: Pellegrini scrittori : viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, Lanza, Antonio (a c. di), Troncarelli, Marcellina (a c. di), Ponte alle Grazie, Firenze, 1990 


STRUMENTI DI TORTURA 

Purtroppo, come noto, la tortura è sempre esistita in tutte le età e in tutti gli  angoli del mondo. Durante il periodo della Santa Inquisizione la perversione portò alla creazione di strumenti di tortura assolutamente unici, finalizzati a mortificare gli spiriti e a lacerare le carni, fino alle confessioni e/o alla morte. In Italia diversi musei mostrano questi raccapriccianti strumenti.

GHIGLIOTTINA

Macchina per decapitazione, così chiamata dal nome del medico francese Joseph- Ignace Guillotin, che ne propose l’adozione nel 1789 quale metodo di esecuzione meno doloroso e più umano. Ma la ghigliottina non è una invenzione francese, versioni simili di questa macchina venivano utilizzate in Inghilterra già dal 1300, ed in Italia e Scozia dal 1500. In Francia, la prima macchina fu posta in opera il 25 aprile 1792 nella Place de Grève a Parigi diventando presto il simbolo di quei famigerati anni del Terrore. Si stima che durante il periodo rivoluzionario siano state giustiziate tra le 15.000 e le 25.000 persone. Tra i condannati famosi ricordiamo Maria Antonietta e Luigi XVI, Regina e Re di Francia. In seguito la scienza scoprì che lo strumento non provocava una morte istantanea ed indolore: una testa recisa è consapevole della sua sorte, la percezione si spegne solo dopo qualche secondo. Pur sostenendo in molti che la ghigliottina meccanizzava e disumanizzava la morte, essa fu impiegata fino all’abolizione della Pena di morte in Francia nel 1981.

LA RUOTA

Il supplizio della ruota era comune in tutta Europa, dal Medio Evo fino al Settecento. Donne, e: uomini nudi con le ossa delle gambe e delle braccia spezzate in più punti vengono letteralmente intrecciati ai raggi di una grande ruota da carro issata orizzontalmente su un alto palo, e in quella posizione restano esposti al freddo, alle intemperie e ai corvi (che strappano brandelli di carne e cavano gli occhi) per giorni e giorni, prima di morire. In Germania le ossa venivano spezzate brandendo la stessa ruota; in Italia, Spagna e Francia si usavano mazze di ferro.

CULLA DI GIUDA

Atroce strumento di tortura che consiste in una piramide di legno o ferro su cui l’interrogato o la interrogata sono costretti a poggiare con tutto il peso del corpo, in modo che la cuspide tagliente e penetrante entri sempre di più nell'ano o nella vagina, con effetti locali devastanti: i francesi chiamano l'attrezzo "veglia" perché impedisce nel, modo più assoluto il sonno ed è molto doloroso. Per aumentare il peso del malcapitato può essere gravato da pesi legati ai piedi.Almeno nel caso della Culla di Giuda (Judaswiege o Judas Cradle), alcune pagine wikipedia, come quella in italiano e in tedesco, riportano che si tratta di uno strumento immaginario, stendendo un velo pietoso sull’origine del mito. D’altronde, immaginare un trabiccolo del genere, per cui era necessario l’impiego di diverse persone, 4 funi e un puntale di legno, è storicamente (e fisicamente, visto l’impossibilità di mantenere in equilibrio l’imputato) demenziale.

A prescindere, comunque, dai problemi strutturali dell’attrezzo, è necessario fare il solito lavoro sulle fonti per dimostrare che non fu mai utilizzato o anche solo concepito prima del XIX secolo. La prima menzione? Immagino ci siate arrivati da soli ormai: “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983“.La prima menzione de La Culla di Giuda è anch’essa del 1983. Curioso no?

Per quanto riguarda l’incisione spesso riportata nella didascalia di questo oggetto, datata al XVII o XVIII secolo a seconda del “museo”, non sono stato in grado di reperirla in nessun manuale, né viene mai citata la fonte, quindi si tratta di un altro falso.

A questo punto, sarebbe interessante sapere di più degli autori di questo “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″: Robert Held, Tabatha Catte e Tobia Delmolino. Del primo, che vanta alcune curatele in ambito oplologico, sono riuscito a reperire solo due dichiarazioni: la prima riportata anche ne la pagina de L’Espresso qui sopra, in cui dice che gli originali sono “difficili da reperire perché dopo l’entrata in vigore del codice di Francesco III furono rimossi o distrutti“.

Più che “difficili” avrebbe dovuto dire “impossibili”, ma la cosa bizzarra è ricondurre la distruzione di ogni strumento di tortura degli ultimi otto secoli in tutta Europa, nonché la cancellazione di ogni sua traccia da decine di migliaia di volumi, alla legislazione di un Granduca di Toscana.  La seconda è tratta dal già citato “Inquisition: A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985“, e dà la misura delle conoscenze storiche del soggetto:

IL PENDOLO

Tortura semplice, in uso anche oggi presso gli inquisitori di vari paesi; consiste nel sospendere per i polsi il corpo del testimone o dell’indiziato ad un gancio o ad una carrucola ancorata al soffitto, per mezzo di una furie comandata da un argano inserito in un pesante e robusto telaio. Più efficace se i polsi sono legati dietro alla schiena e alla vita. Le conseguenze possono essere anche gravi: a parte il dolore, l’ omero può fuoriuscire dai legamenti dalla la scapola e la clavicola, spesso con orrende e spesso permanenti deformazioni del torace e della schiena. Effetti peggiori si hanno con l'aggiunta di pesi crescenti applicati ai piedi, fino a causare uno smembramento simile a quello provocato dal banco di stiramento.

 

IL COLLARE O FORCELLA DELL’ERETICO

Pesante collare in ferro munito da ogni lato di numerosi pungenti aculei. Chiuso attorno al collo produce con il suo stesso pero ferite e infezioni gravi, spesso con erosione fino alle ossa. Abbandonati nelle segrete, tra ratti famelici, feci proprie ed altrui, privati di cibo e spesso anche d'acqua, i torturati con il collare finiscono per confessare o muoiono nelle più abiette condizioni. La  “forchetta o forcella dell’eretico ”comunque non trova riscontro in alcuna fonte. Con la Forcella, tra l’altro, inizia anche la serie di falsi datati 1983 (quindi falsi recentissimi), di cui si ha una prima citazione in “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″  -si tratta, a quanto sembra, della prima mostra organizzata dalla società che ora possiede diversi musei della tortura in Italia e all’estero-  e nel successivo “Inquisition: A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985, entrambi redatti da Robert Held.

La Forcella dell’Eretico presenta come una doppia forchetta legata al collo, con le punte rivolte sotto il mento e al petto. Il sito de Il Museo della Tortura, gestito dalla Inquisizione s.r.l. (!!!), lo definisce così:

Con le quattro punte acutissime conficcate profondamente nella carne sotto il mento e sopra lo sterno veniva impedito qualsiasi movimento della testa: la vittima poteva soltanto bisbigliare “abiuro” (parola questa che ha il significato di rinunzia ad altra religione o dottrina che non sia quella cristiana).

A parte  la menzione alla “dottrina cristiana” senza specificare se si trattasse di strumento dell’Inquisizione Romana o di un tribunale protestante, fa sorridere il fatto che, partendo da questa storia della parola sospirata “abiuro”, altri “musei” abbiano addirittura fatto creare dei pezzi che riportano la scritta “abiuro” incisa sul ferro. Le fonti wikipedia per “heretic fork” sono grottesche: un museo della tortura fasullo e la pagina di un negozio online che vende repliche (per giunta maldestre).Un altro falso del secolo scorso. Molto forte dal punto di vista immaginifico ma pur sempre un falso.

Anche in questo caso nessun libro, di quelli conosciuti volgarmente come “manuali dell’Inquisizione”, parla di questo strumento. Dal Malleus Maleficarum al Sacro Arsenale di Eliseo Masini, fino all’opera anticlericale di Henry Charles Lea A history of the Inquisition of the Middle Ages, e alla Storia dell’Inquisizione di Tamburini, nessuno fa menzione di un dispositivo anche solo lontanamente simile alla Forcella dell’Eretico.

In pratica, è possibile che lo abbiano fatto costruire di sana pianta prendendo come canovaccio il libro di Havas, senza neanche rifarsi, quindi, ai falsi vittoriani. Il falso esposto dal “museo” della tortura è stato poi riproposto in un famoso dipinto di Leon Golub nel 1985.

LA CINTURA Di CASTITÀ

Rivelatasi infondata l'attuale credenza popolare che assicurava la fedeltà delle mogli durante l'assenza dei mariti, pare che fosse in realtà uno strumento: temporaneo di  difesa anti-stupro richiesto e utilizzato dalle stesse donne in circostanze: particolari (viaggi, invasione di truppe nemiche, pernottamenti in locande ecc.). Questo è il parere di R. Held,; suffragato a suo dire ,anche dalle testimonianze di anziane donne siciliane e spagnole viventi. Ciò non toglie, tuttavia, che la cintura :di: castità fosse per la donna una fonte di tormenti non indifferenti, molto più che un semplice fastidio. Lo stesso Held riporta una illustrazione del 1540 in cui una donna indossa un comodo «slip" di foggia moderna, ma intessuto ih maglia di ferro con tanto di serratura e chiave Una tortura certa sarebbe stato per l'uomo ogni tentativo di penetrazione sessuale: in molti modelli di cinture la vulva ed anche l'ano sono protetti da esigue aperture dotate tutto intorno di numerosi e appuntitissimi aculei di ferro.

LO SCHIACCIADITA

Piccola pressa di ferro a due o tre barre munite all’interno di spunzoni , regolabile e restringibile a piacere per mezzo di viti o chiavi . Tipico strumento di tortura per chi si rifiutava confessare o di fare nomi, era molto doloroso . Ne sono stati ritrovati due esemplari, uno italiano (XVII sec) e!'altro austriaco (XVII sec.).

IL BANCO DI STIRAMENTO

Lo stiramento o allungamento delle membra del torturato avveniva e avvienene su un bancone di legno ' (solo di rado è dotato di  abtato di rulli ti acuminati) per mezzo di funi comandate da un argano. Se non interveniva una pronta confessione o l’aguzzino esagerava, il corpo della vittima poteva smembrarsi. Lo stiramento poteva essere anche praticato senza banco o ricorrendo solo a corde  argano e maniglie di cuoio. In questo caso il corpo veniva a trovarsi sospeso in ara: Una variante particolarmente complicata era la scala di stiramento, una robusta scala di legno inclinata a 45° in cui il torturato poteva essere sistemato anche a testa in giù. Una variante più crudele erano le ustioni alle ascelle ed al costato con fiaccole e ceri,fino a mettere a nudo le costole, che andava ad aggiungersi alle slogature delle spalle procurate dalla trazione.

La “mordacchia” detta anche “bavaglio di ferro” è uno strumento di tortura tipico del tempo dell’Inquisizione (quella riprodotta è una copia ottocentesca di un esemplare tedesco di metà Cinquecento). Non serviva però all’inquisizione, cioè a strappare ai torturati la confessione di un qualche crimine, ma agli inquisitori e più in generale agli sbirri perché potessero conversare tranquilli senza dover ascoltare le grida, spesso fastidiose e protratte, dei prigionieri. Consta di una “scatola” di ferro che viene forzata in bocca alla vittima e di un collare che permette di stringerla. Spesso i condannati al rogo venivano condotti a morte così imbavagliati in particolare durante i fastosi ed affollati autodafé per evitare che gli eretici o le streghe disturbassero con le loro grida l’esecuzione della musica sacre. Secondo le cronache del tempo anche Giordano Bruno andò al patibolo indossando una mordacchia munita di due lunghi aculei di cui uno perforava la lingua, mentre l’altro spaccava il palato. L’immagine è tratta dal catalogo di una mostra di strumenti di tortura che fu ospitata a San Marino e in diverse città italiane tra il 1983 e il 1984. L’ho pubblicata con questo breve commento perché ho l’impressione che in un modo o nell’altro vogliano tornare a mettercela.

LA SEDIA INQUISITORIA

 Che qualcuno abbia potuto credere a una cosa del genere è, dal punto di vista storico, a dir poco mortificante. La Sedia Inquisitoria unisce influenze indiane provenienti dall’Impero Britannico al solito Medioevo Vittoriano, e, ovviamente, non se ne fa menzione in alcun volume dedicato alla prassi inquisitoriale, né ad altre fonti dal XIII al XVIII secolo.

L’idea stessa di inquisitori disposti a spendere cifre enormi per realizzare un simile oggetto è grottesca; il quantitativo di metallo utilizzato, poi, e la presenza di chiodi fatti in serie lasciano presupporre una prima fabbricazione modernissima. È quantomeno sospetto che le prime riproduzioni della Sedia Inquisitoria siano del XX secolo, anzi, più precisamente, del’ultimo quarto del secolo scorso.È difficile dire se la Sedia Inquisitoria sia stata creata avendo in mente i letti di chiodi dei fachiri o qualche altro falso vittoriano, ma è davvero molto sospetto leggere che la prima menzione del dispositivo risale al… 1880 (Geschichte der Hexen und Hexenprozesse, un altro testo senza alcuna pretesa storica) e la prima costruzione di questo dispositivo a dopo il 1983. Dopo la pubblicazione di quale testo? “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″. Ebbene sì, anche la Sedia Inquisitoria potrebbe essere (anzi, siamo più nell’ambito delle probabilità che in quello delle possibilità) la seconda creazione originale dei “musei” della tortura, ed è francamente incredibile che abbia avuto questa diffusione senza suscitare i necessari sospetti storici.

La Sega

Più che di uno strumento di tortura, si trattava di una vera e propria esecuzione (lenta). Il malcapitato veniva letteralmente segato in due. Purtroppo sembra che molti perdessero conoscenza solo poco prima di arrivare al cranio. Si trattava di un procedimento riservato spesso agli omosessuali

Schiaccia Testa

Sopra il cranio della vittima veniva appoggiato un casco montato su un torchio. Sono facilmente immaginabili le conseguenze e il dolore da questi derivato.

La garrota è stato lo strumento di pena capitale della Spagna in uso fino alla morte di Franco

(l'ultima esecuzione ufficiale risale al 1975 quando fu giustiziato uno studente di appena 25 anni, riconosciuto in seguito innocente) e quindi fino all'abolizione della pena di morte nella penisola Iberica. Lo strumento serviva allo strangolamento dei condannati. Nella sua forma più diffusa, un meccanismo tirava indietro l'anello  messo al collo della vittima fino a procurarne l'asfissia; ma molte furono le varianti sia a scopo di tortura inquisitoria che di morte. Il condannato veniva fissato al palo con un collare, quindi mentre l'aculeo penetrava e schiacciava le vertebre cervicali, la vite spingeva il collo in avanti, forzando la trachea contro la fascia di ferro e procurando una morte atroce, sia per asfissia che per lo stritolamento delle vertebre.

LA GOGNA

Una delle pratiche più “dolci” era la gogna:

una specie di collare di ferro fissato ad una colonna con una catena. 

Chi veniva condannato alla gogna, restava esposto nelle piazze e subiva la berlina.

La gente poteva semplicemente deriderlo o fargli il solletico.

La Pera era un terribile strumento che veniva impiegato il più delle volte per via orale, ma era usata anche nel retto e nella vagina. 

Questo strumento era aperto con un giro di vite da un minimo, a un massimo dei suoi segmenti in modo che l'interno della cavità in cui veniva immesso, era orrendamente mutilato e spesso mortalmente. 

I rebbi costruiti alla fine dei segmenti, servivano per strappare e lacerare la gola o gli intestini. 

Quando veniva applicato alla vagina, i chiodi dilaniavano la cervice della povera donna. 

Questa pena veniva inflitta a uomini macchiatisi di sodomia,a donne adultere o persone delle quali si sospettavano rapporti sessuali col demonio.

La  Vergine di Norimberga

Era una sorte di contenitore di dimensioni umane dalle sembianze di una fanciulla. Il suo interno era ricoperto di lame in modo che il condannato,

che vi veniva chiuso dentro, venisse trafitto in dei punti precisi: il fegato, i reni e gli occhi e non morisse subito perché le lame non colpivano organi vitali. La tortura era particolarmente atroce perchè la morte sopravveniva dopo ore, per dissanguamento. Questa tortura veniva inflitta a chi veniva accusato di eresia o di atti blasfemi contro Dio o i Santi, se si rifiutava ostinatamente di confessare la propria colpa.

Lo schiacciaseni

Era una pinza tremendamente dolorosa, il cui utilizzo è facilmente immaginabile: 

talora le tenaglie erano anche arroventate.

Lo Spaccaginocchio 

 veniva usato per la lacerazione di braccia o di gambe e spesso applicato al ginocchio o al gomito, articolazioni che gli aculei possono distruggere permanentemente.

Violone delle comari

Più che uno strumento di tortura vero e proprio, rappresentava un istituto della giustizia punitiva medioevale ed era usato pubblicamente nei confronti di quelle signore che avessero dato luogo a scandalo o fossero state troppo bisbetiche o litigiose.

Cicogna di storpiatura

La cicogna di storpiatura immobilizzava totalmente la vittima ed era costituita da un’asta che bloccava il collo, polsi e caviglie. Pur sembrando, dalle prime apparenze, solo un altro metodo di incatenamento, ossia di costrizione, la “cicogna” induce nella vittima, spesso dopo pochi minuti, forti crampi, prima nei muscoli addominali e rettali, ed in seguito in quelli pettorali, cervicali e degli arti.

AQUILONE DEL VESCOVO 

E’ ancora sconosciuto il motivo della denominazione di questo strumento di tortura, che compare in alcuni documenti toscani del Seicento. Lo strumento è un congegno di contenzione, simile ad altri che si conoscono in tutto il mondo, che imbriglia il prigioniero lasciandogli libera una gamba, così che possa muoversi e “camminare” come un grottesco uccello, azzoppato e crocifisso. Rinchiuso in questa “trappola” era soggetto a successive torture oppure lasciato morire di stenti. Dai documenti risulta che venisse usato in Toscana per la punizione dei condannati ai lavori forzati a partire dal 1500.

GABBIA PENSILE

Sino alla fine del ‘700, i panorami urbani e suburbani europei abbondavano di gabbie in ferro e in legno affisse all’esterno dei palazzi comunali e ducali, ai palazzi di giustizia, alle cattedrali, alle mura cittadine ed in cima ad alte forche erette presso gli incroci delle strade maestre. La procedura d’uso era semplice. La vittima veniva rinchiusa ed appesa. Moriva di fame e di sete, sorte questa coadiuvata d’inverno dalle intemperie e dal gelo, d’estate dalle scottature solari; spesso la vittima era stata anche torturata e mutilata, per meglio servire da ammonimento edificante. Il cadavere in putrefazione generalmente rimaneva in situ fino al distacco delle ossa.

IL CAVALLETTO

Il condannato veniva posto a cavalcioni in una struttura a V, come su un cavallo; Lo spigolo penetrava nelle carni compromettendo irrimediabilmente gli organi genitali. Venivano poi posti dei pesi ai suoi piedi affinché egli venisse tirato sempre più giù. Questa tortura faceva si che le articolazioni del condannato si slogassero e che tutte le sue membra venissero disarticolate dalle giunture.


 CANZONE BELLA CIAO

 

 

La consacrazione avviene nel 1964, quando il Nuovo Canzoniere Italiano presenta a Spoleto uno spettacolo dal titolo "Bella ciao", in cui la canzone delle mondine apre il recital e quella dei partigiani lo chiude".

 

Nel maggio 1965 da un lavoro di Cesare Bermani, si racconta che le parole, il testo di Bella ciao risalgono a non prima del 1951, portate in una gara fra cori di mondariso, e che la Daffini  ha chiesto il testo. Alcuni ricercatori invece sostengono che tracce di Bella ciao sono presenti  prima della seconda guerra.  

 

Probabilmente la musica era già  presente in qualche canzone delle mondine. "Prima del '45 la cantavano come afferma Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea all'università di Catania  solo alcuni gruppi di partigiani nel modenese.

 

All’ epoca la canzone più amata dai partigiani era "Fischia il vento" forse troppo comunista e comunque  riecheggiava  nella canzone sovietica Katiuscia. Comunque  la storia di Bella ciao è sempre stata un po’ travagliata, questa canzone diventa inno "ufficiale" della Resistenza dopo vent'anni la fine della guerra.

 

"Nel giugno del 2006 trovandosi nel  quartiere latino di Parigi, in un LApiccolo negozio di dischi, vedendo un cd dal  titolo: "Klezmer - Yiddish swing music", lo compra   pagandolo solo  due miseri euro. Passato un pò di te tempo lo ascolta, mentre lo ascolta inizia a cantare  "Una mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao...", in poche parole la musica era  quella di Bella ciao.

 

Successivamente  dopo un po di tempo legge il titolo, l'esecutore del pezzo, si legge: "Koilen - Mishka Ziganoff 1919".

 

Così  comincio il suo  viaggio nel mondo yiddish e nella musica klezmer, alla scoperta di come un pezzo di musica popolare ebraica nata nell'Europa dell'Est e poi emigrata negli Stati Uniti agli inizi del '900, diventando  la base dell'inno partigiano". Questo turista a Parigi era l’Ing.  Fausto Giovannardi.

 

Di come fosse arriva tata in Italia non ci è dato saperlo, probabilmente arrivò in Italia attraverso qualche emigrato ritornato in Italia.

 

 

Si dice che la melodia di Koilen ha un distinto suono russo ed è forse originata da una canzone folk yiddish. Rod Hamilton, della The British Library di Londra sostiene che Mishka Ziganoff  ebreo probabilmente russo e la canzone Koilen è una versione della canzone yiddish "Dus Zekele Koilen", una piccola borsa di carbone, di cui esistono almeno due registrazioni, una del 1921 di Abraham Moskowitz e una del 1922 di Morris Goldstein. 



LA SCUOLA DI ATENE (PILLOLE)

Scena ambientata nel mondo classico per indicare le radici della civiltà romana.

Perchè Raffaello dipinge la scuola di Atene? probabilmente perchè la filosofia nasce in Grecia.

Sappiamo che le tre aree che hanno fatto grande l'occidente sono la filosofia Greca, il Diritto Romano e la Religione Ebraica. La Scuola di Atene è un affresco (770×500 cm circa),  databile al 1509-1511 ed è situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane”, poste all’interno dei Palazzi Apostolici.

Prospettiva utilizzata quella centrale 

a sinistra della scena statua di Apollo a destra Minerva   personaggi mitologici che rappresentano la ragione. Al centro  il vertice della cultura Greca Platone e Aristotele i due più grandi pensatori 

                                                                                                                PERSONAGGI 

Platone al centro rappresentato con i tratti di Leonardo da Vinci, regge il Timeo con il dito indica il cielo cioè il mondo delle idee.

Aristotele rappresentato con i tratti di Bastiano da San Gallo regge l'Etica Nicomachea 

 

Zoroatro  profeta iranico  meglio noto come Zarathustra, regge  il globo celeste 

 

Tolomeo con il globo terrestre 

 

Euclide rappresentato con i tratti di Bramante grande amico di Raffaello mentre insegna geometria

 

Raffaello autoritratto

 

Sodoma amico di Raffaello

 

Eraclito filosofo pessimista con i tratti di Michelangelo aggiunto probabilmente ad opera terminata per omaggiare Michelangelo che in contemporanea dipingeva la Sistina a pochi metri di distanza. Alcuni studiosi invece  hanno voluto vedere una palese presa in giro di Raffaello nei confronti di Michelangelo. Perchè rappresentare Michelangelo nei panni di Eraclito? Perchè Eraclito  era infatti definito fin dall’ antichità come un filosofo “oscuro” e con un pensiero piuttosto criptico.

Ritornando a Michelangelo sappiamo, che pur essendo molto ricco per via delle commissioni che aveva ricevuto tra cui la Cappella Sistina, viveva come un  povero. Addirittura si racconta che non si togliesse mai gli stivali, neanche per dormire, e che li sfilasse solo quando era costretto a cambiarli con un paio nuovo. In questa rappresentazione Raffaello ha messo in molto in evidenza proprio gli stivali del suo antagonista, forse ad evidenziare la puzza che emanavano. 

 

Epicuro  fondatore dell’epicureismo, filosofia per una certa epoca osteggiata dalla Chiesa e tornata in voga -durante il Rinascimento. Questo volto potrebbe in verità incarnare anche la metafora di un rito orfico, volendo leggere -come nel caso dello storico della filosofia Giovanni Reale- la corona di pampini come simbolo di Dioniso e non del piacere ricercato dagli epicurei. Ispiratore di Lucrezio uno dei pochi atomisti dell'antichità

 

Pitagora

 

Telauge figlio di Pitagora che regge una lavagnetta racchiude tutta la teoria musicale pitagorica rappresenta la famosa  Tetraktys in altre parole rappresentava la successione aritmetica dei primi quattro numeri naturali 

 

Averroè filosofo islamico,colui che fece “il gran commento” all’ opera di Aristotele viene raffigurato giustamente negli abiti orientali, il che non lascia spazio a dubbi.

 

Federico II Gonzaga  Duca mantovano che combatté sia con il Papa che con l’Impero.

 

Diogene di Sinope riconoscibile con abito lacero attegiamento di disprezzo verso qualsiasi forma di decoro e la ciotola.  Caposcuola del cinismo. Il che molto spiega sulla sua apparenza…

 

Socrate

 

Zenone di Cizio, il  vecchio dalla barba bianca che nel dipinto  regge in braccio un infante. È questi il fondatore della scuola filosofica dello stoicismo, sorta in Grecia nel periodo ellenista e perpetuata anche nel mondo romano.vecchio

 

Parmenide, il filosofo dell’Essere che è “immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile ed eterno”.

 

Ipazia matematica di Alessandria per alcuni,  unica donna e unico personaggio al di fuori di Raffaello che guarda verso l'osservatore nessun altro sembra essere interessato ad entrare in contatto con l'osservatore, questa ipotesi però   non risulta suffragata da nessuna fonte o saggio critico attendibile. Per altri studiosi  si tratta di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino e nipote del papa Giulio II, che all’ epoca del dipinto si trovava a Roma. Secondo l’ipotesi di Giovanni Reale questa figura biancovestita è un simbolo emblematico dell’efebo greco ovvero della “bellezza/bontà”, la Kalokagathia.